Il caso-Sallusti e la libertà di opinione. A prescindere dalla politica

27 settembre 2012 | 00:10
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Il caso-Sallusti e la libertà di opinione. A prescindere dalla politica

La casta dei magistrati, la responsabilità personale e le storture dell’ordinamento italiano

Il Faro on line – Parafrasando il Ministero competente, direi che non è una questione di “grazia”, ma una questione di “giustizia”. E non è nemmeno una questione di “casta”, perché la galera, se uno se la merita, la deve fare. I giornalisti devono andare in galera se rubano, se ammazzano, se stuprano, ma non possono andarci se scrivono. Chi ha la bontà di seguire questi “Appunti” sa che spesso sono andato controcorrente, esprimendo anche opinioni difficili da sostenere in un momento in cui l’antipolitica trascina tutto come una valanga. E al contempo sa che se c’è da stigmatizzare qualcosa che non condivido, “oso” farlo. E anche stavolta farò così. Non posso esimermi dal fornire un punto di vista e spiegare alcuni meccanismi del “gioco”.

E lo faccio – così come un giornalista dovrebbe fare – evitando qualunque coinvolgimento emotivo e rimanendo ai fatti. Più o mneo tutti sanno cosa è successo a Sallusti, direttore di Libero nel momento in cui è partita la causa. La vicenda nasce da un articolo nel quale si commentava la vicenda dell’aborto di una ragazzina di 13 anni, che non volendo rivolgersi al padre – visti i cattivi rapporti esistenti – per chiedere la necessaria autorizzazione, d’accordo con la madre aveva chiesto al giudice tutelare il permesso di interrompere la gravidanza. L’autore dell’articolo celato dietro uno pseudonimo, attaccava il magistrato e i genitori, parlando di «aborto coattivo». E aggiungeva (secondo l’accusa “una serie di falsità”) sostenendo che la ragazza era contraria all’aborto, quando invece aveva firmato la richiesta assieme alla madre. Ecco, il punto è questo: la notizia “falsa” è quella della firma o meno della ragazza, che cambia l’aspetto di cronaca della vicenda ma non la sostanza del dibattito. Il giudizio negativo espresso nell’articolo – condivisibile o meno è cosa che attiene alla coscienza di ciascuno di noi – era incentrato sul fatto che un giudice, sapendo che la minorenne ha due genitori, non può farsi bastare l’autorizzazione di uno solo dei due per permettere una cosa irrevocabile come un aborto. E per Sallusti la galera nasce da qui, dall’essersi “Libero” permesso di criticare in maniera feroce questa impostazione giudiziaria definendola “aborto coattivo”.

Inquadrata così la vicenda, il percorso della (in)giustizia diventa a mio avviso più visibile. Non c’entra la poltiica tout court, intesa come beghe, accuse e contraccuse tra onorevoli e d’intorni; c’entra il dibattito, mai sopito perché connaturato con la nascita stessa dell’essere umano, sull’aborto, sulle forme di autorizzazione, sulla consapevolezza di ciò che si sta facendo. E – ripeto – dal mio punto di vista non si può andare in galera per aver partecipato a questo dibattito, con l’asprezza che un tema così delicato e appassionante inevitabilmente porta con sé; non è argomento dove si può stare in mezzo al guado, o si sta da una parte o dall’altra, con argomentazioni parimenti ruvide e rispettabili, ma incompatibili l’una con l’altra. Chi per descrivere l’aborto parla di “omicidio” non può su questo dialogare con chi parla di “assenza di vita”, è del tutto evidente. E’ chiaro dunque che decisioni della magistratura (“terza”, dicono i professori, rispetto alle parti) innescano inevitabilmente profonde discussioni su questo tema, e ogni tesi ha diritto di essere rappresentata. Anche – e purtroppo alla fine il punto è questo!!! – a costo di criticare l’operato dei magistrati.

Secondo punto da trattare: la responsabilità oggettiva. Il direttore responsabile di un quotidiano è correo per qualunque articolo risulti diffamatorio o venga denunciato come tale. La legge prevede che una singola persona (il direttore) debba controllare ogni singola riga che esce su un giornale non solo nella sua forma generale, ma anche che ne controlli la veridicità. Ripeto, ogni singola riga, di ogni singolo articolo in ogni singola pagina, dallo sport alla cronaca, dalla politica allo spettacolo. Questa è la legge, e definirla assurda è poco. Questa legge impone una cosa impossibile (cioè leggere ogni giorno tutto) contravvenendo anche al principio fondamentale per cui la responsbilità penale è personale. Il direttore paga per ciò che altri hanno scritto, cioè non paga l’autore (o almeno non solo) ma anche il direttore. E questa legge vale per tutti, non solo per i direttori miliardari con megaeditori che li “coprono”, ma per qualunque direttore responsabile di un giornale, compreso questo.

Non risulta, però – come afferma Giovanni Valentini, e speriamo che nessuno mi quereli per questo richiamo – che i magistrati siano mai condannati a risarcire direttamente qualcuno, neppure quando sbagliano nello svolgimento delle loro funzioni o vengono riconosciuti colpevoli addirittura di «dolo soggettivo». Al posto loro, semmai, paga il ministero di Grazia e Giustizia. Cioè noi stessi, cittadini e contribuenti, che dovremmo essere il «popolo sovrano». Nel nostro sciagurato Paese, collocato non a caso agli ultimi posti nelle graduatorie mondiali della libertà d’informazione, sono già troppi i vincoli e i condizionamenti che gravano sulla stampa. Non c’ è bisogno di mandare in galera i giornalisti per difendere l’onore e la reputazione di nessuno. E neppure di riservare trattamenti di favore ai magistrati, come se fossero una casta (quella sì) di intoccabili, per tutelare le prerogative di una categoria composta da tanti rispettabili servitori dello Stato.

Vi voglio raccontare un episodio che mi ha riguardato direttamente. Anni fa, da caposervizio nella zona pontina per il quotidiano Latina Oggi, scoperchiai la pentola di una società mista pubblico-privato che gestiva il patrimonio comunale e la riscossione dei tributi con un aggio del 30% sugli incassi. Raccontai che altre società, con un altro nome ma con la medesima composizione socitaria, avevano già preso la stessa gestione per alcuni Comuni del litorale e che la nuova società si apprestava a fare filotto dall’altra parte della costa. Mentre la Guardia Finanza si muoveva all’insaputa di tutti, arrivò al sottoscritto – oltre a qualche amichevole telefonata – anche una bella querela da 600 milioni di lire di risarcimento (che ovviamente cojvolse anche l’allora direttore del giornale) per una presunta diffamazione. La mia follia professionale connaturata al Dna che mi è stato donato al mio arrivo su questa Terra, non mi consente di spaventarmi, e dunque andai avanti per la mia strada. Poco tempo dopo ci fu un blitz delle forze dell’ordine, alcuni sindaci finirono in carcere, la società subì un pesante ridimensionamento e ciò che rimase fu rimodulato secondo regole più favorevoli ai cittadini. E la querela?, direte voi… Dopo tutto quel bailamme fu ritirata, e finì così nel nulla. Ma se invece di quella intimidazione – perché questo fu – mi avessero sbattuto grazie alla denuncia-querela in qualche carcere? Chi avrebbe scritto più su quella vicenda? E qui stiamo parlando di cronaca, cioè di fatti. Figuriamoci quanto diventa importante avere le mani libere quando si parla di opinioni…

Il ministro della Giustizia Paola Severino non commenta la sentenza della Cassazione su Sallusti, ma ribadisce «la necessità di intervenire al più presto sulla disciplina della responsabilità per diffamazione del direttore responsabile». Chiede di calendarizzare «immediatamente» i ddl di legge che per punire la diffamazione e in particolare l’omesso controllo del direttore responsabile prevedono la sola pena pecuniaria. Vabbè, meglio di niente… Come vi ho spiegato è comunque una forma di pressione anche quella, ma almeno si garantisce di poter continuare ad esprimere le proprie opinioni e raccontare ciò che si vede. Magari senza più un soldo in tasca, ma liberi di parlare.
Angelo Perfetti