Aeroporto, la distruzione di una classe sociale

7 gennaio 2013 | 04:05
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Aeroporto, la distruzione di una classe sociale

Strategie sbagliate, mancanza di dialogo, decisioni miopi. Così una risorsa si è trasformata in un incubo

Il Faro on line – C’è qualcosa di simbolico in ciò che sta accadendo ai lavoratori dei Duty Free in protesta davanti alla sede di Adr per il previsto licenziamento dell’intero parco-dipendenti: 44 persone. La protesta che stanno faticosamente portando avanti non è diversa, né più importante, delle altre che riguardano i lavoratori precari dell’aeroporto e più in generale tutti coloro che hanno perso il posto o stanno faticosamente cercando di mantenerlo,Ma questo presidio rappresenta in tutto e per tutto il film (decidete voi se “drammatico” od “horror”) dell’economia italiana. La loro storia è un po’ la storia di tutta quella classe medio-borghese che mai avrebbe pensato di ritrovarsi al freddo di un angolo, in strada, barricata in una tenda per difendere la possibilità di pensare ancora a un futuro.Erano abituati negli anni ’70 ad avere privilegi, poi negli ultimi anni ad avere un posto di lavoro sicuro. In ambienti caldi, protetti, ben vestiti. Come gran parte della generazione dei cinquantenni attuali, e ancor più dei loro padri. Loro, come nostri. Perché – ripeto – la loro storia è la storia dell’Italia. Eppure la crisi li ha costretti a togliersi di dosso il tailleur per mettere jeans da battaglia.

Ho detto “la crisi”… Ma forse era meglio dire la cattiva politica, quella che per anni ha ingrassato i parassiti dimenticandosi dell’efficienza, quella che forse nei “tempi che furono” ha dato troppo senza pensare alle conseguenze future. Certamente quella che ha mangiato il più possibile dove non era possibile, provocando voragini di debiti che stanno ingoiando il presente di chi era inserito nel processo produttivo e il futuro di chi verrà dopo.

Una persona delle 44 che si alternano al presidio fisso davanti ad Adr si è sentita male ed è stata trasportata al Grassi. Anche questo episodio, se vogliamo, rappresenta una metafora: ammalarsi per poter lavorare è un paradosso dei nostri tempi. E questa anomalia porta disgrazie: l’abbassamento delle possibilità di lavoro porta le aziende a creare discriminazioni, favorendo l’ingresso di chi ha meno pretese. Ma ciò spesso vuol dire più – al di là dei soldi – più lavoro e meno sicurezza. E così si arriva alle esequie istituzionali di questo o quel lavoratore che uscito la mattina di casa per mantenersi il posto e mai più rientrato.

In tutto questo niente è accettabile, ma c’è una cosa più brutta delle altre: l’indifferenza delle istituzioni e delle aziende. La mancanza di confronto, l’esasperazione delle parti in causa, la poca trasparenza, le notizie frammentate, sono tutte tecniche di guerra per fiaccare le forze di quello che viene evidentemente percepito come un avversario e non come forza lavoro. Un avversario che, come in qualsiasi guerra, deve avere un solo destino: l’eliminazione. Poco importa se ha dei figli, moglie, marito, una vita. Questa è la società di oggi, ed è una società orribile.

Si dirà: ma se non ci sono soldi… Eppure una soluzione – azzardo io – ci sarebbe: ridistribuire il monte ore diminuito spalmandolo su tutti i lavoratori. Stipendi più leggeri ma posto assicurato finché la situazione economica non porti a una ripresa dei profitti. E’ solo un’idea, non pretendo di avere la soluzione in mano. Il dramma è che anche sindacati e lavoratori avrebbero delle idee, solo che nessuno è disposto ad ascoltarle. Né più né meno come da anni fa certa politica nei confronti dei cittadini.

Angelo Perfetti
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