Storie e racconti di vita dal campo nomadi di Dragona

29 marzo 2013 | 05:36
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Storie e racconti di vita dal campo nomadi di Dragona

Esistenze precarie tra vicissitudini ed espedienti: ecco come si vive in uno dei tanti insediamenti autorizzati della Capitale

Il Faro on line – “E’ dal 1990 che risiedo qui e, poco o nulla, sembra essere cambiato. Ancora non abbiamo adeguati servizi igienici e la corrente elettrica va e viene”. A parlare è Branko Todorovic. Lui è l’uomo più anziano del campo nomadi di Dragona, popolare e popoloso quartiere alla periferia sud-ovest della Capitale, a due passi dal mare. Qui tra sporcizia e abitazioni fatiscenti, sotto  grandi cavalcavia, vivono 15 famiglie. Il campo è composto, perlopiù, da casupole dalle geometrie bislacche e dalle fondamenta incerte. Luoghi dove l’estate il caldo si fa insopportabile e l’inverno si è costretti, per ripararsi dal freddo, a far uso di stufe artigianali e improbabili fornelletti a gas.

Branko appartiene a una delle due famiglie di origine serba presenti nel campo. Le altre sono di origine rumena e croata. E’ un uomo cordiale e la sua inusitata ospitalità ci lascia stupiti. “Accomodatevi, vi voglio raccontare la mia storia”. Casa Todorovic è angusta ma accogliente. E’ un ambiente composto da pannelli in legno e assi metallici sovrastati da una quantità impressionante di rovi. Tutto intorno carcasse di automobili, frigoriferi e lavatrici rotte. Qua e là caravan e vetuste roulotte. Nell’aria l’odore di spezie frammisto a miasmi. Branko viene assistito da sua sorella Rada. Da poco ha subito un delicato intervento chirurgico ai polmoni e l’operazione ha significativamente compromesso le sue funzioni motorie. Ora, infatti, per muoversi si serve di un bastone. La presenza di Rada è essenziale per la vita dell’uomo. La donna ha un figlio quindicenne che studia ed è l’orgoglio della famiglia. Il ragazzo ha già un sogno nel cassetto: quello di diventare meccanico.

“Noi ai nostri tempi non abbiamo avuto la possibilità di studiare – spiega Rada – quando siamo arrivati al campo abbiamo dovuto lavorare sodo e arrangiarci come potevamo. La vita che ho condotto, però, mi ha logorata fisicamente”.

Branko racconta che lui e sua sorella si occupavano della lavorazione del ferro e del rame. La loro era un’attività artigianale, un lavoro duro ma che dava i suoi frutti.

“Creavamo pentole e oggetti in rame. Poi li rivendevamo. Un lavoro che richiede abilità e forza. Il problema è che per compiere questa attività si fa un impiego massiccio di acido muriatico. Così, alla fine, ci siamo ammalati”.
Eppure appena arrivati in Italia, alla fine degli anni ottanta, tirarono un sospiro di sollievo. “La Jugoslavia era in una situazione difficile. – ricorda Branko – Siamo venuti in Italia in cerca di un futuro migliore per noi ed i nostri figli. Ma le difficoltà, invece, si sono rivelate molte”.

Dopo un lungo peregrinare tra la Sardegna e il nord Italia, ecco la scelta di Roma, di Dragona in particolare. “Un luogo rurale tutto sommato – afferma l’uomo – ampi spazi sui quali poterci fermare e creare una comunità. Ci cacciavano via dappertutto. Roma è stata la scelta migliore per clima e ambiente. Alla fine Dragona ci è sembrata un luogo tranquillo dove poter vivere”.

Branko è il custode della memoria storica della comunità. Mentre parla del campo, sembra come se nei suoi occhi scorrano le immagini di un film. “Il campo – afferma – all’inizio era composto da trecento persone alloggiate un po’ ovunque. Eravamo tutti sprovvisti di corrente elettrica e c’era molta confusione. La vita per noi era ancora più dura di adesso. Subivamo sgomberi continui. Fino a quando, nel 1994 con l’ordinanza numero 80 del Sindaco di Roma Rutelli, venne riconosciuto il nostro campo sosta e ci vennero erogati i servizi minimi. Da lì in poi ha inizio la storia della nostra comunità. Anche se ancora oggi viviamo in condizioni di degrado e precarietà, il campo è la nostra casa. Ora i nostri nipoti e figli sono italiani e frequentano le scuole del territorio. Speriamo che nessuno disgreghi la nostra realtà”.

Rada e Branko hanno un sogno e, mentre ci salutano, lo confessano: “Vorremmo un campo più vivibile. Chiediamo opportunità, soprattutto, per i giovani”.

I GIOVANI DEL CAMPO, TRA PRESENTE E FUTURO

I giovani al campo sono numerosi. Molti di loro, una volta terminate le scuole medie, hanno smesso di studiare. Kristian Radosavljevic è uno di questi. Lui è il figlio del leader del campo, Dragan. Loro fanno parte della componente etnica di origini croate. Kristian ha diciassette anni. E’ un tipo schivo e riservato.

“Sono stanco – dice – di passare intere giornate senza far nulla. Vivere qui in queste condizioni è esasperante, logorante. Sono giovane e pronto a svolgere qualsiasi lavoro”.

Il ragazzo è un esperto di motori. Gli piace molto la meccanica. Il suo sogno sarebbe quello di poter diventare un carrozziere.

“Vorrei frequentare un corso che mi consenta di svolgere questo tipo di lavoro. Ora però non so a chi rivolgermi per cominciare a fare pratica. Contro di noi il pregiudizio è radicato”. Kristian è scoraggiato ma ha il desiderio di crearsi una vita normale. ”Spero di trovare un impiego al più presto. Giardiniere, spazzino o carrozziere, tutto va bene. L’importante è lavorare”.

CI saluta, anche lui, esprimendo un desiderio: ”Veder sistemato il campo e costruire un futuro migliore per tutta la comunità”.

LE POLEMICHE INTORNO AL CAMPO

La comunità ha attraversato varie vicissitudini. Anche giudiziarie. Più volte giovanissimi nomadi sono stati colti a lanciare pietre contro i treni della Roma Lido in corsa. Ma Il fatto più grave risale al  2008, quando un uomo, residente nel campo, travolse con la sua automobile, 13 pedoni e si scatenarono forti polemiche. Dopo il fatto, la comunità è stata oggetto di veri e propri atti di intolleranza. Venti anni di convivenza pacifica rischiarono di essere cancellati.

Inoltre, non molto tempo fa, una presunta denuncia di occupazione di suolo privato da parte dell’Atac, nuova detentrice del terreno dove sono stanziati, mandò in subbuglio la comunità. Sembra, infatti, che il campo  debba sparire. Al suo posto dovrebbe esser creato un grande parcheggio che servirà gli utenti della nuova stazione della ferrovia Roma-Lido, Acilia sud. Malgrado le rassicuranti parole dell’Assessore alle Politiche Sociali, Lodovico Pace che affermò come il campo fosse “tra i tredici censiti e autorizzati dal Comune di Roma”, i nomadi sono in allerta.

L’IMPEGNO DI MARIO AMENDOLA E DI AMNESTY

Mario Amendola è l’ex Responsabile Tecnico dell’Ufficio nomadi del Municipio Tredicesimo di Roma Capitale. E’ autore di un libro “Storia di Dragan, Rom de Roma”. All’interno del volume si raccontano le vicende del campo nomadi. Dalla nascita spontanea sul finire degli anni ’80 fino adarrivare al suo riconoscimento ufficiale nel 1994, per mano della Giunta dell’ex Sindaco di Roma Rutelli, il libro offre una disamina dei fatti salienti che hanno segnato la storia del campo. Una panoramica  su volti e storie di uomini e donne, sovente discriminati, ormai cittadini italiani.
Il libro è stato scritto con la collaborazione di Dragan Radosavljevic leader del campo e di Filippo Lange rappresentante dell’Associazione culturale “Affabulazione”.

“E’ in corso la seconda ristampa. – ci fa sapere Amendola – Stiamo prevedendo anche una borsa di studio per una ragazzo del campo e attività in favore di altri bambini. Ormai ci battiamo da anni per i loro diritti. Voglio ricordare, inoltre, che due volontari di Amnesty si recano tutti i sabati al campo per far fare i compiti ai bambini. Mi auguro si trovi una soluzione per questa comunità -conclude – I fondi europei per l’emergenza nomadi, finora usati solo per gli sgomberi, vengano utilizzati per rendere migliore il campo”.

Vincenzo Galvani