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Elezioni americane: il perdente più votato della storia

10 dicembre 2020 | 19:30
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Elezioni americane: il perdente più votato della storia

L’approfondimento di Alessandro Scasselati: il voto per la Casa Bianca e per il controllo del Senato

Il 3 novembre 2020 gli elettori americani hanno espresso il loro voto in massa (circa 160 milioni di votanti, oltre 20 milioni in più del 2016 e pari a più del 65,5% degli aventi diritto, la più alta percentuale dal 1908) in un clima teso, consapevoli di dover fare una scelta carica di conseguenze riguardo al futuro delle proprie vite, del Paese e del mondo. L’alta tensione esistente era testimoniata dal fatto che nelle città molte attività commerciali sono state chiuse e le vetrine coperte da grandi pannelli di legno, non per la paura dell’arrivo di un uragano, ma di possibili rivolte, atti di violenza e saccheggi durante la notte delle elezioni, dopo una delle più divisive e polarizzanti campagne elettorali della storia americana.

Joseph R. Biden è stato dichiarato presidente eletto dai media mainstream solo nella tarda mattinata di sabato 7 novembre, dopo diversi giorni di conteggio dei voti, quando i principali organi di informazione hanno assegnato la Pennsylvania e i suoi 20 voti elettorali all’ex vicepresidente. Subito dopo l’assegnazione della Pennsylvania, i media hanno annunciato che Biden aveva sconfitto Trump anche in Arizona e Nevada, dandogli un totale di 290 grandi elettori contro i 214 di Trump (il conteggio finale è stato 306 a 232). Biden ha ottenuto oltre 81 milioni di voti popolari (51%, circa 14 milioni in più della Clinton nel 2016), contro i 74 milioni (47,2%) di Trump (circa 11 milioni in più del 2016, migliorando anche la sua posizione tra gli elettori latini e afroamericani).

Il presidente in carica si è rifiutato di ammettere ufficialmente la sconfitta, dopo aver prematuramente proclamato vittoria (alle 2 di notte del 4 novembre) e poi avviato delle azioni legali tese a fermare il conteggio dei voti postali e per e-mail, affermando, senza fornire prove, che erano “illegali”, frutto di una frode di dimensioni gigantesche. La forte mobilitazione di democratici e repubblicani ha determinato un’ondata di votazioni anticipate e per posta (oltre 101 milioni). Proprio grazie allo scrutinio del voto postale, Biden ha ribaltato il risultato del voto in presenza e vinto in Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Arizona e Georgia.

Trump ha sostenuto che l’elezione gli veniva “rubata” e ha cercato di ottenere riconteggi e di aprire una battaglia legale per cercare di arrivare ad un giudizio della Corte Suprema (controllata da una maggioranza di giudici di orientamento conservatori nominati da maggioranze senatoriali repubblicane). Anche se alcuni dei leader repubblicani e dei media conservatori (come Fox News e The New York Post, controllati dalla famiglia Murdoch) avevano cominciato a prendere le distanze da lui, Trump ha attivato manovre legali che avrebbero potuto impedire a 5 Stati (Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Arizona e Georgia) di certificare il voto e rispettare il termine legale dell’8 dicembre per la scelta dei grandi elettori del Collegio Elettorale Nazionale.

Nonostante le elezioni presidenziali siano state, secondo funzionari federali e statali, le “più sicure nella storia americana“, senza alcuna prova che i voti siano stati compromessi o alterati, il leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell e altri politici repubblicani hanno dato il loro sostegno a questi tentativi di Trump di contestare l’esito delle elezioni, rifiutandosi di riconoscere Biden come presidente eletto per alcune settimane in modo da ostacolare anche il processo di transizione.

D’altra parte, dalla “elezione rubata” (Bush vs. Gore) del 2000 in poi, ogni presidente è stato considerato illegittimo da una crescente percentuale dei sostenitori del partito avversario, da George W. Bush a Donald Trump, passando per Barack Obama. Di fatto, Trump non solo ha tentato di portare avanti in modo caotico un apparente colpo di Stato per rovesciare il risultato elettorale, ma ha anche cercato di lasciare all’amministrazione Biden un mondo in pieno caos (dalla risposta al CoVid-19, ai piani di salvataggio economico, dalla deregolamentazione in campo ambientale alla gestione di punti internazionali caldi come Afghanistan, Cina, Iran e Yemen). Per questo, in un rapido e chiaro rifiuto della linea Trump di ritiro dalla cooperazione sulla scena mondiale, con il suo approccio nazionalista “America first“, Biden ha affermato che con lui gli Stati Uniti vogliono “sedersi a capotavola” negli affari internazionali e “affronteranno gli avversari” e “non rifiuteranno i nostri alleati”.

Biden ha definito se stesso come l’antitesi del trumpismo e ha vinto. Il veterano democratico – un uomo dell’establishment mainstream, un ex senatore e vicepresidente con quasi 50 anni di esperienza politica – ha mantenuto un profilo relativamente basso e ha condotto una campagna lenta, costante, convenzionale e prevedibile, cercando di dimostrare di essere un leader politico serio e sobrio che ascolta gli esperti e segue la scienza, in netto contrasto con il presidente in carica. Biden ha cercato di trasformare le elezioni in un referendum sulla gestione da parte di Trump della crisi del coronavirus, anche se questa non si è rivelata una carta totalmente vincente. Trump ha preso d’assalto gli Stati in bilico con grandi manifestazioni che hanno violato le linee guida della salute pubblica, mentre Biden ha continuato a tenere piccoli eventi con pochi ospiti e giornalisti. Trump ha inesorabilmente preso in giro questa strategia, accusando Biden di abitare nel suo seminterrato dopo aver sventolato “una bandiera bianca sulla vita“. Biden si è limitato a definire il suo avversario “patetico“.

Biden ha caratterizzato la sua campagna come una “battaglia per l’anima della nazione” contro Donald Trump, un presidente non convenzionale e imprevedibile che, Biden ha detto, minacciava le fondamenta stesse della democrazia americana. Nonostante un 2020 di sconvolgimenti storici – una pandemia gestita in maniera disastrosa che al momento delle elezioni aveva ucciso oltre 230 mila americani e contagiato quasi 10 milioni, la più grande crisi economica dagli anni ’30, la più diffusa turbolenza razziale dalla fine degli anni ’60 esplosa con le proteste contro gli omicidi di afroamericani da parte delle forze di polizia, la morte di un giudice della Corte Suprema, un presidente che è stato ricoverato per breve tempo – la competizione è rimasta notevolmente stabile verso la fine, e i sondaggi hanno predetto correttamente un vittoria di Biden, anche se poi è avvenuta con un margine più stretto del previsto, senza che vi sia stata una “onda blu”. Dopo quattro anni di scandali, crudeltà, razzismo, sessismo, corruzione e fallimento dopo fallimento, quasi la metà di tutti gli elettori ha sostenuto ancora un bugiardo seriale, autoritario e nazionalista bianco che ha gestito in modo caotico e disastroso la più grave crisi sanitaria in un secolo.

Biden ha beneficiato delle mobilitazioni e della rabbia repressa che si sono accumulate nel corso della presidenza Trump – dalla iniziale Marcia delle Donne al movimento #MeToo e alle proteste a livello nazionale del movimento Black Lives Matter – divenendo il leader politico di una coalizione di elettori con istruzione elevata residenti in città ed aree metropolitane, di giovani, di elettori di colore e ispanici (almeno negli Stati sud-occidentali) e di donne bianche dei sobborghi, tutti determinati ad impedire la rielezione di Trump. Ma, ha anche corteggiato e ottenuto il sostegno dei repubblicani centristi moderati, dal governatore dell’Ohio ed ex candidato alla presidenza John Kasich, all’ex senatore dell’Arizona Jeff Flake e a Cindy McCain, la vedova del senatore dell’Arizona John McCain. “Sono orgoglioso della coalizione che abbiamo messo insieme, la più ampia e diversificata nella storia. Democratici, repubblicani e indipendenti. Progressisti, moderati e conservatori. Giovani e meno giovani. Urbana, suburbana e rurale. Gay, etero, transgender. Bianca. Latina. Asiatica. Nativa americana. E soprattutto in quei momenti in cui questa campagna era al minimo, la comunità afroamericana si è battuta di nuovo per me. Mi ha sempre sostenuto e io la sosterrò.”

Biden ha criticato Trump per aver governato solo per la sua base di lealisti e ha promesso di essere “il presidente di tutti gli americani, che abbiano votato o meno per me“. Vuole “guarire” l’America: “La Bibbia ci dice che per ogni cosa c’è una stagione: un tempo per costruire, un tempo per raccogliere, un tempo per seminare e un tempo per guarire. Questo è il momento di guarire in America .” Ha chiesto la fine di “questa cupa era di demonizzazione“, dicendo: “È ora di mettere da parte la dura retorica, di abbassare la temperatura, di vedersi di nuovo, di ascoltarsi di nuovo“.

Attento a non ripetere gli errori della Clinton nel 2016, Biden ha profuso la sua attenzione sul trio di Stati della “rust belt” che avevano dato la vittoria a Trump: Pennsylvania, Wisconsin e Michigan. Ha ricostruito il “blue wall” del Midwest che Trump aveva in parte abbattuto nel 2016, ma ha anche colto le opportunità per cambiare il panorama elettorale tradizionale, vincendo in bastioni repubblicani come Arizona e Georgia.

Biden ha detto di voler essere “un presidente che non cerca di dividere, ma di unire“, di voler “restaurare l’anima dell’America, ricostruire la spina dorsale della nazione, la classe media, e rendere di nuovo l’America rispettata nel mondo“. “Per fare progressi, dobbiamo smetterla di trattare i nostri avversari come nostri nemici. Non siamo nemici. Siamo americani.” Un appello che deve fare i conti con le profonde disuguaglianze economiche e sociali presenti nella società americana e con il fatto che il “popolo di Trump” ha dimostrato di essere vivo e pronto a resistere e combattere in vista delle elezioni del 2022 e 2024, con il rischio che la presidenza del centrista moderaro Biden si riveli solo una tregua temporanea.

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Il 3 novembre gli americani hanno votato anche per 35 seggi senatoriali, per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di alcuni governatorati statali.

I Democratici speravano che sarebbero stati puniti i deputati e i senatori repubblicani che hanno permesso che prendessero piede quelle modalità autoritarie e anti-democratiche di gestione del potere che hanno caratterizzato gli anni di Trump. Biden è stato in grado di ottenere i voti necessari degli elettori con elevati livelli di istruzione dei sobborghi (ad Atlanta, Detroit, Milwaukee, Philadelphia e Phoenix), ma molti di questi elettori, tradizionalmente repubblicani, hanno votato in modo disgiunto, votando per un candidato repubblicano al Senato e alla Camera. Nonostante Biden abbia guadagnato voti tra gli elettori bianchi non istruiti nel Midwest rurale, i guadagni dei candidati democratici al Congresso sono stati minimi.

I Democratici moderati hanno accusato la sinistra interna di essere la vera responsabile della debacle parlamentare per aver agitato parole e temi come “socialismo”, “Medicare for all” e “definanziare la polizia” (slogan del movimento Black Lives Matters), mentre la Ocasio-Cortez ha sostenuto che la causa era da identificarsi nella piattaforma eccessivamente moderata del partito. Difficile far coabitare centristi e progressisti all’interno del partito. A causa di un sistema elettorale federale basato sulla rappresentanza statale e di distretto e non direttamente sul voto popolare, e del gerrymandering, per vincere le elezioni i Democratici non solo devono vincere avendo una sorta di super maggioranza a livello nazionale, ma devono adattare il loro messaggio politico ai diversi contesti territoriali. I centristi moderati, la corrente maggioritaria del Partito Democratico, pensano di dover correre a destra per ottenere la super maggioranza, per catturare gli elettori di centro-destra dei sobborghi che essenzialmente sono benestanti e repubblicani. Ma, correndo a destra, non solo si finisce per abbracciare politiche neoliberiste distruttive per la coesione del Paese, si mette a repentaglio l’entusiasmo della stessa base popolare democratica delle lower-middle e working classes. Il partito è bloccato in questo dilemma, e i centristi non sono disposti ad affrontarlo, perché hanno una storia intrinseca di attacchi alla sinistra che risale alla Guerra Fredda.

I Democratici puntavano a togliere la maggioranza ai Repubblicani al Senato (che era di 53 a 47), cercando di guadagnare almeno 3 seggi. Invece, i risultati del 3 novembre hanno portato ad un rapporto di forze favorevole, anche se non definitivo – 50 a 48 – per i Repubblicani. Mitch McConnell, il leader repubblicano al Senato, che ha perseguito una linea improntata all’ostruzionismo più totale durante la presidenza Obama e ha appoggiato le scelte di Trump, è stato rieletto e non ha pagato alcun prezzo politico.

Per il controllo del Senato sono diventate cruciali le elezioni per i ballottaggi dei due seggi senatoriali della Georgia il 5 gennaio 2021. Una vittoria dei candidati democratici in Georgia avrebbe portato ad un controllo del Senato da parte del Partito Democratico, grazie al voto della vicepresidente Harris, consentendo a Biden di combattere le “grandi battaglie del nostro tempo” di cui ha parlato mentre delineava sei priorità chiave: il coronavirus, l’economia, l’assistenza sanitaria, “la battaglia per ottenere la giustizia razziale e sradicare il razzismo sistemico“, la crisi climatica e “la battaglia per ripristinare la decenza, difendere la democrazia e dare a tutti in questo Paese una giusta possibilità”.

Al contrario, una vittoria dei candidati repubblicani in Georgia darà al Partito Repubblicano uno strumento politico-istituzionale potente per tentare di bloccare l’azione di governo di Biden. Con un Senato sotto il controllo dei repubblicani, Biden dovrebbe fronteggiare, oltre alle sollecitazioni della sinistra democratico-socialista che vorrebbe trasformarlo in un nuovo F.D. Roosevelt, anche una guerriglia continua da parte dell’opposizione repubblicana che produrrebbe la paralisi politica parlamentare degli ultimi quattro anni e quindi non consentirebbe l’approvazione di nuovi grandi stimoli e piani economici espansivi tesi a creare un’economia a basse emissioni di carbonio o di riforme legislative in materia fiscale o di assistenza sanitaria, e la ratifica di nuovi accordi internazionali (ad esempio, sui cambiamenti climatici). Come con Obama dopo le elezioni di mid term del 2010, i repubblicani useranno l’entità del deficit di bilancio degli Stati Uniti – il 15% del PIL nel 2020 – come scusa per bloccare i piani di spesa del nuovo presidente e cercare di tornare a politiche di austerità. Come Obama e Trump prima di lui, Biden dovrebbe limitare le sue aspirazioni riformatrici per accontentarsi di governare firmando ordini esecutivi che consentono di bypassare il Congresso, ma non di autorizzare programmi di spesa. Un primo segnale in questo senso è arrivato dal Segretario al Tesoro di Trump, Steven Mnuchin, che ha chiesto alla FED la restituzione di centinaia di miliardi di finanziamenti approvati a marzo destinati a garantire liquidità per le imprese. Mnuchin si è assicurato che questi fondi già stanziati per la FED non fossero disponibili per uno stimolo da parte di una entrante presidenza Biden.

In questo scenario, l’onere di stimolare l’economia ricadrà comunque sulla FED, per cui l’attore economico più importante negli anni a venire non sarà Biden, ma il presidente della FED, Jerome Powell. Ma, la politica monetaria non può essere una risposta sufficiente al disperato bisogno dell’America di rinnovare le infrastrutture, i servizi pubblici e il sistema di welfare (dalla cura dei bambini alla sanità). Senza questo rinnovamento continuerà l’impasse di una società americana divisa e di una politica disfunzionale.

Alla Camera, dove i Democratici avevano conquistato un’ampia maggioranza nel 2018 (232 contro 197) e puntavano ad ampliarla, hanno mantenuto il controllo (222 contro 213), nonostante importanti sconfitte in Florida, Nord Carolina, New York e Minnesota. Se nelle file dei democratici si è irrobustita l’ala progressista (con figure come Cory Bush, Jamaal Bowman, Ritchie Torres, Mondaire Jones, etc.), in quelle dei repubblicani si è ampliata l’ala della destra più radicale (con figure come Madison Cawthorn, Marjorie Taylor Greene e Laureen Boebert). Se il Senato viene controllato dai Repubblicani e Biden avrà le mani legate, la Camera controllata dai Democratici diventerà sempre più insoddisfatta e intollerante, rafforzando così la ribellione in corso nell’ala sinistra del partito, soprattutto negli Stati molto progressisti come California e New York.

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Il futuro della politica Americana

Per Biden una delle questioni cruciali sarà la futura evoluzione politica di Trump e del Partito Repubblicano. Durante la sua presidenza, Trump ha rimodellato a sua imagine il Partito Repubblicano e per quattro anni i repubblicani gli hanno assicurato la loro incrollabile lealtà. Lo hanno protetto dall’impeachment, hanno tacitamente approvato quando al confine con il Messico i bambini sono stati separati dai genitori e messi in gabbie, e hanno guardato dall’altra parte mentre gli americani che protestavano pacificamente venivano gasati per dare a Trump un’opportunità fotografica.

Le elezioni del 3 novembre 2020 hanno dimostrato che Trump e il trumpismo, il movimento politico-sociale radicale che lo aveva portato alla presidenza nel 2016 e sostenuto durante i 4 anni di presidenza, sono una parte fondamentale della società americana con cui dover fare i conti. Trump ha ottenuto circa 74 milioni di voti (il secondo più alto totale nella storia americana), pari al 47,2% dei voti a livello nazionale, vincendo in 25 Stati su 50, inclusi Florida e Texas. Ha dimostrato di avere una presa straordinaria su vasti territori (i red States) e una connessione viscerale con milioni di sostenitori che ha prodotto una devozione quasi simile a un culto di una religione della sfiducia e del risentimento verso lo Stato, tutto ciò che è pubblico, la politica mainstream (regole basilari della democrazia, partiti, istituzioni, stampa, organizzazioni di rappresentanza, cultura accademica), la globalizzazione, e i valori tradizionali americani come il fair play istituzionale, il pragmatismo, lo stato di diritto e la libertà di stampa.

Ciò nonostante Trump è stato sconfitto, diventando uno dei soli quattro presidenti nell’era moderna a non avere vinto un secondo mandato. Non è riuscito a espandere il suo sostegno elettorale oltre la sua base adorante e, francamente, non si è neanche sforzato di farlo, rimanendo un un presidente deliberatamente divisivo. Il malcontento, la rabbia, l’odio e la paura (della globalizzazione, del declino economico, delle disuguaglianze, elle discriminazioni razziali, della “sostituzione” della popolazione bianca, etc.) con cui hanno convissuto la maggior parte degli americani dopo la crisi finanziaria nel 2008 e che hanno portato Trump al potere nel 2016 non sono scomparsi. La sensazione di milioni di cittadini americani (soprattutto uomini bianchi appartenenti alla classe lavoratrice e all’America rurale) di essere stati abbandonati, lasciati fuori, ignorati o liquidati come “deplorevoli” è ancora forte.

Secondo il Brookings Institute, Biden ha conquistato 477 contee grandi, urbane, suburbane e densamente popolate che rappresentano il 70% dell’economia americana, mentre la base elettorale di Trump comprende 2.497 contee che rappresentano solo il 30% e che sono più bianche e meno istruite, comprendono soprattutto piccole città e aree rurali in difficoltà. Finché gli americani bianchi poveri avranno poche speranze di una vita migliore, continueranno a cercare un leader come Trump, anche se poi realmente, a parte il razzismo, Trump non ha nulla da offrire a loro. Finché non si affronteranno le profonde fratture e disuguaglianze che si sono create nella politica e società americana negli ultimi decenni, è assai probabile che gran parte dell’America rossa e del blocco sociale radical-conservatore che Trump è arrivato a dominare, anelerà un suo ritorno. Trump continuerà a essere la figura dominante nel movimento radical-conservatore anche negli anni a venire. Il trumpismo potrebbe finire per avere lo stesso effetto trasformativo sul conservatorismo americano del reaganismo. I precedenti che Trump ha stabilito, i dubbi che ha seminato e le affermazioni che ha fatto rimarranno.

Trump rimarrà una figura profondamente polarizzante e potrebbe candidarsi di nuovo nel 2024, parlando delle stesse teorie del complotto sulla frode elettorale e sulle elezioni che gli sono state rubate nel 2020. Questo significa che la frattura politica della società americana, che non è solo ideologica, ma anche frutto di una divisione di classe e di una polarizzazione rurale-urbana, potrebbe diventare più profonda e più a lungo termine. Con il partito repubblicano e una grossa fetta degli elettori dalla sua parte, Trump – come leader de facto dell’opposizione, tweeter freelance, star di talk show o barone dei media – continuerà ad attirare enormi livelli di attenzione e sostegno, che utilizzerà per pressare ed indebolire i democratici, svergognare pubblicamente deputati e senatori repubblicani per spingerli a combattere Biden su tutto, e per lanciare lo stesso messaggio stizzoso, controfattuale, noi-contro-gli-esperti-e-tutti-gli altri che ha diffuso nei quattro anni di presidenza.

Allo stesso tempo, è anche possibile che emerga un nuovo leader più giovane, un politico più capace, più disciplinato sul piano politico-organizzativo e con un messaggio ideologico più inclusivo (ad esempio, meno esplicitamente razzista e sessista, più “pro-lavoratore” e pro-classe media). Figure come i senatori Ted Cruz, Tom Cotton, Marco Rubio, Josh Hawley o Lindsey Graham, o il deputato texano Dan Crenshaw, o il governatore della Florida, Ron DeSantis, un fedele alleato di Trump, o il vicepresidente Mike Pence o Mike Pompeo, il Segretario di Stato di Trump, o ancora Nikki Haley, l’ex ambasciatrice all’ONU. Oppure, la base trumpiana potrebbe spostarsi completamente verso i teorici della cospirazione, i vigilantes armati, un rinato Ku Klux Klan. Si potrebbe entrare in uno scenario pericoloso in cui l’incapacità del governo Biden di implementare delle policies o la rabbia dei repubblicani per i tentativi del governo Biden di farlo, non farà che intensificare la già viziosa polarizzazione del Paese, riducendo ulteriormente le possibilità di cooperazione e, possibilmente, portando alla violenza.

Infine, è assai improbabile che si apra una battaglia interna per la direzione futura del Partito Repubblicano tra la fazione radicale guidata da Trump e quei pochi leader rimasti della componente centrista-moderata – come Mitt Romney, senatore per lo Utah – sopravvissuti in silenzio agli anni di presidenza di Trump. Questi moderati, però, potrebbero decidere di (o essere costretti ad) abbandonare il partito e fare un’alleanza bipartisan con Biden in cambio di incarichi governativi e di un riformismo molto, molto moderato. Se i repubblicani moderati devono gestire il difficile rapporto con l’ala della destra radicale trumpiana, Biden deve gestire il complesso rapporto con l’ala democratico-socialista di Sanders, Ocasio-Cortez e Warren, e un accordo bipartisan con i repubblicani moderati potrebbe dare a Biden i voti sia alla Camera sia al Senato per far passare alcune riforme (seppure molto moderate) o un piano di investimenti nelle infrastrutture.

Nel Partito Democratico è assai probabile che in vista dei prossimi appuntamenti elettorali – le elezioni di mid term del 2022 e le presidenziali del 2024 – si possa aprire uno scontro interno tra i moderati e l’ala radicale capeggiata da Sanders, Warren e le 4 giovani deputate della “Squad”. La componente di sinistra vuole contare sempre di più sia nei vertici del partito sia nella definizione dell’agenda dei temi della politica (disuguaglianze economiche, cambiamento climatico, riforme di assistenza sanitaria, welfare, riforma delle forze di polizia e del sistema carcerario, controllo della diffusione delle armi da guerra, etc.). Molto dipenderà dalle scelte che Biden farà nel formare il team dell’amministrazione, considerando che, se i democratici non avranno il controllo del Senato, le sue scelte saranno comunque pesantemente condizionate dall’ostruzionismo repubblicano verso candidati di “sinistra”. Biden ha dichiarato che la sua presidenza non sarà “un terzo mandato di Obama” e ha promesso di rappresentare l’intero spettro del Paese e del Partito Democratico, di voler perseguire un’agenda “progressiva”, ma la sostituzione alla presidenza di Trump con Biden rischia di essere solo un’incarnazione più convenzionale e più educata delle stesse politiche economiche e sociali che non mettono in discussione gli assetti economici e sociali esistenti. Il Partito Democratico dovrebbe dimostrare di voler puntare su un rinnovamento e non su una restaurazione, e quindi di riuscire ad andare oltre al modello di società e di sviluppo incentrato su un liberalismo moderato, con dosi contenute di social welfare e molta libertà per grande finanza e global corporations.
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