Pecunia non olet, la storia di Vespasiano

5 novembre 2012 | 01:58
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Pecunia non olet, la storia di Vespasiano

Il Faro on line – Generalmente ci si ricorda degli imperatori per le loro gesta e per i loro monumenti, più o meno mantenuti nelle testimonianze archeologiche, epigrafiche, storico-letterarie e numismatiche. Alcuni sono ricordati per nefandezze o grandi tragedie, l’incendio di Roma legato a Nerone come pure le persecuzioni dei Cristiani legate a Diocleziano. Uno solo, Vespasiano, è legato ad uno dei più grandi monumenti della Romanità, l’anfiteatro Flavio, meglio noto col nome di Colosseo, come pure ad un luogo privato e pubblico poco nobile ma di straordinaria utilità, la latrina.

In realtà l’anfiteatro Flavio fu inaugurato nell’estate del 80 d.C., dal Figlio Tito, quasi due anni dopo la morte di Vespasiano. Da Tito fu celebrato in uno dei più rari sesterzi che la numismatica conosca in cui è raffigurato il Colosseo completo di ornamenti e statue all’interno degli archi esterni.  Ma quel monumento appartiene a Vespasiano. Sua la progettazione e la volontà; suo il denaro con cui fu costruito, proveniente dal saccheggio del tempio di Gerusalemme, a seguito della repressione della rivolta giudaica, l’ennesima, del 70 d.C., celebrata in uno splendido sesterzio in cui compare, nel retro, la raffigurazione della Giudea sottomessa che piange sotto una palma. Suo il desiderio di restituire quell’immensa area tra i tre colli, Oppio Palatino e Celio, che Nerone aveva illegittimamente sottratto all’erario pubblico per il suo megalomane progetto della Domus aurea. Eppure Vespasiano viene maggiormente ricordato per aver legato il suo nome alle latrine. Ma Vespasiano non riempì di latrine Roma e le sue provincie. Le latrine pubbliche e private erano già ampiamente arredo urbano nelle città romane dell’impero.

E dunque? Per capire meglio è necessario ricordare che la situazione finanziaria  dell’impero ereditata  da Vespasiano, dopo la caduta di Nerone e dopo l’instabilità che ne derivò, con guerre civili tra i pretendenti all’impero, Galba, Otone, Vitellio e Clodio Macro, era molto grave. Una serie di misure drastiche furono introdotte tra cui una tassa indiretta, la centesima venalium, sulla raccolta delle urine. 

Bisogna considerare che, a differenza di oggi, l’urina era un business nell’antica Roma poiché era utilizzata dai conciatori di pellame e soprattutto dai proprietari delle officine fullonicae, le moderne lavanderie. Precisamente l’urina forniva l’ammoniaca che, insieme alla calce, e al lavoro degli schiavi, che saltavano ritmicamente a mo di ballo, per ore, coi piedi sulle vesti  imbevute di urina in vasche melmose, era usata per pulire la biancheria e per i processi di tintura delle vesti. 
Dunque le persone che raccoglievano urina per il loro business sotto l’impero di Vespasiano dovevano pagare una tassa allo stato. C’è da immaginare che questa tassa attirò ostilità ma anche derisione e fu davvero imbarazzante tanto che perfino il  figlio di Vespasiano, Tito, rimproverò al padre di aver introdotto una tassa che lo stava facendo scendere nei sondaggi, per usare un termine moderno.

Secondo quanto tramandato da Svetonio, Vespasiano, alla prima occasione utile, mise sotto il naso del figlio una manciata di sesterzi proveniente da questa tassa chiedendogli se fosse offeso dal suo odore e quando Tito disse di no, rispose “eppure è il prodotto dell’urina. Come vedi pecunia non olet!“. Il denaro non puzza! Questa risposta è rimasta nella leggenda popolare tanto quanto il termine vespasiano per le latrine ed è cinicamente usata per indicare che, qualunque sia la sua provenienza, il denaro è sempre denaro.
Numismaticus