Francesca Satta Flores, il palcoscenico come “necessità”

15 aprile 2013 | 12:01
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Francesca Satta Flores, il palcoscenico come “necessità”

Faccia a faccia con la protagonista di “No punti-no party”

Il Faro online- “No punti-no party” rappresenta la realtà canadese di fine anni ’60 nei suoi aspetti più bigotti e moralistici grazie alla brillante interpretazione delle otto attrici, capaci di mettere in scena tutti i più importanti sentimenti che ogni essere umano prova nelle relazioni sociali: la gelosia, l’invidia, il giudizio facile, l’angoscia abbandonica, il senso di profonda solitudine, l’orgoglio, il disprezzo per la vecchiaia. Il pretesto: la vincita di un milione di punti da spendere in un centro commerciale da parte della padrona di casa che coinvolge figlia, sorelle, amica e vicina in un presunto party finalizzato all’incollatura dei bollini sugli appositi raccoglitori.

Una pièce declinata al femminile, l’unico maschio, travestito da vecchia novantenne disabile su sedia a rotelle, offre un’immagine della donna articolata e complessa, ricca di sfumature psicologiche particolarissime, adeguatamente stilizzate. Chapeau agli interpreti: Antonella Bonanni, Chiara Branchini, Pina Celia, Pina De Rosa, Lucia Gabbrielli, Marilù Gubitoso, Marlisa Romagnoli, Daniele Margaglio, e naturalmente alla regista Francesca Satta Flores, all’aiuto regista Eleonora Petrarca, e a Lucia Mirabile per le scene e i costumi.

Ma diamo la parola al primo motore di questo interessante lavoro teatrale, Francesca Satta Flores. Qual è il messaggio che vuoi lanciare attraverso questa rappresentazione che esprime un’attenta e profonda analisi psico-sociologica del mondo femminile?
Abbiamo fatto un bel lavoro di squadra, cosa che io amo sempre fare nelle mie regie, con le interpreti di questo testo, per analizzarne il contenuto al di là dei luoghi comuni che possono essere o meno legati all’universo femminile. Attraverso il lavoro di immedesimazione e studio dei diversi personaggi, ci è stato chiaro che quello che ci interessava di più – e che senz’altro era prioritario anche per me – era la dimensione esistenziale e universale posta appena al di là dei riferimenti di genere e che rimanda all’intera percezione dell’esistenza. Le donne che abbiamo portato in scena, fotografate in un momento storico, verso la fine degli anni ’60, in cui il benessere e il possesso sembravano essere la concreta risposta al bisogno di felicità dell’essere umano, rappresentano in maniera eccezionalmente precisa la “puntata precedente” del momento storico che stiamo vivendo in questi anni.

Un momento in cui – prosegue -, ancora una volta, falliti i modelli di riferimento seguiti fin qui, di fronte all’umanità si pone in evidenza un dilemma, tanto ricorrente quanto irrisolto: cos’è la felicità e in che direzione vale la pena cercarla? Il mio lavoro non ha certo la presunzione di rispondere ad una domanda simile, ma vorrebbe contribuire a renderla sempre più esplicita, sempre più consapevole, sempre più espressa per creare condivisioni, dialoghi, percorsi inesplorati e creativi che possano aiutarci tutti a sollevare i problemi piuttosto che a tenerli sottotraccia, nascondendoli oltre la linea di galleggiamento del vivere quotidiano. Un po’ come fa Olivine, la vecchietta novantatreenne che, con il suo gesto finale di bruciare tutti i punti che le donne si sono aspramente contesi, solleva una volta di più , e in maniera eclatante, il problema della necessità della felicità e della sua ricerca, piuttosto che insabbiarlo silenziosamente nella disillusione quotidiana di una “vita di merda”.

Qual è il ruolo che prediligi fra quelli di attrice, regista ed insegnante?
Ruoli diversi, molto diversi e, sinceramente, tutti estremamente attraenti per me. Comportano sforzi e soddisfazioni diverse e, potendo, l’ideale per me sarebbe alternarli. Senza dubbio, però, so che posso rinunciare più facilmente al ruolo di attrice che a quello di regista o insegnante. La regia, con le sue caratteristiche di creazione a 360 gradi, in cui vanno tenuti insieme tanti “fili” e curati mille aspetti tra il narrativo, l’emotivo, il drammaturgico, l’attoriale ecc, stimola e soddisfa eccezionalmente la mia personalità strutturalmente piuttosto complessa che si barcamena sempre in bilico tra la sfera razionale e quella emotiva.

Trasmettere la cultura teatrale e l’arte di stare in scena, poi, ha in sé un valore talmente inestimabile da costituire un elemento attrattivo quasi irresistibile per me, con la possibilità di unire l’elemento di empatia umana, fondamentale nell’espressione teatrale, con gli strumenti tecnici che aiutano gli allievi non solo a scoprire nuove possibilità espressive, ma anche ad approfondire notevolmente la conoscenza delle loro potenzialità interiori, abbattendo presunti limiti e schemi parassiti che possono bloccare per anni le energie personali. Stare in scena come attrice, però, è non solo importante ma addirittura necessario, a mio avviso, per mantenere sempre vivo il legame con la propria esperienza attoriale, indispensabile sia per entrare in empatia con gli allievi, che per tesaurizzare esperienza utile a creare strutture complesse come quelle registiche.

Ricordiamo ancora con profonda ammirazione ed immensa simpatia la figura di Stefano Satta Flores, fulgido esempio della scuola drammaturgica napoletana e coraggioso interprete di parti scomode e contro corrente. Quale pensi  sia la migliore qualità che hai ereditato da tuo padre?
Da mio padre vorrei avere ereditato molte sue qualità, come il coraggio, l’onestà, la  strana“saggezza” che lui, a sua volta, diceva ereditata da suo padre, mio nonno Ettore, la creatività, la generosità…Ma chi può dire se io le posseggo o meno? Senza essere troppo presuntuosa direi che una qualità che mi posso, almeno fin’ora, riconoscere e che ho senz’altro ereditato da mio padre è la fiducia nella vita, quella fede profonda nel senso ultimo delle cose e delle persone che le prescinde perfino ma che esiste, c’è, e costituisce il recondito e misterioso motore dell’universo. La fiducia nelle possibilità proprie e altrui di serenità, condivisione, gioia pace… addirittura felicità? (Ed ecco che torniamo alla felicità!)Fede che in lui era declinata in maniera, almeno apparentemente, laica, e che in me è stata illuminata dalla Grazia, che ha creato un ponte di continuità tra la visione del mondo ereditata da mio padre e quella che ho poi sviluppato individualmente.

Hai sostenuto che fare teatro “Fa bene a chi lo fa e a chi viene a vederlo, perché il teatro ti investe di un ruolo estremamente attivo e ti inserisce in una comunicazione umana di qualità eccezionale. Il teatro è vita. Aiuta a conoscersi, a superare i propri limiti, a sviluppare le proprie qualità già note e a scoprirne di nuove. A incontrare gli altri in modo nuovo e speciale. Aiuta a ripartire. A fare il punto su se stessi da un’ottica diversa. A mettersi e rimettersi in gioco. Ci aiuta a creare oasi di benessere, di vicinanza, di comunicazione nella quotidianità spesso caotica eppure profondamente solitaria dei nostri giorni.” Pensi quindi che il teatro possa essere un punto di riferimento assiologico valido per le giovani generazioni?
Sinceramente penso che il teatro a tutto tondo, cioè il teatro vissuto come spettatori e come attori, possa essere un riferimento e uno strumento valido per affrontare le situazioni quotidiane non solo per i giovani, ma anche e forse soprattutto per gli adulti e per gli anziani, persone che sempre più e forse soprattutto in questo momento delicato della nostra storia collettiva, scoprono l’importanza del potersi esprimere liberamente, al di là dei ruoli sociali, sfidando i limiti che la vita ha posto a ciascuno e aprendosi a nuove possibilità di esperienza e condivisione creativa che inventino strade nuove verso la realizzazione di sé, l’equilibrio la serenità…perfino la felicità, forse?…Vedi che torniamo sempre alla felicità…..
Pasquale Maria Sansone