Pedofilia, il solenne mea culpa della Chiesa: “Non siamo stati all’altezza delle nostre responsabilità”
Nella Sala Regia del Palazzo Apostolico la liturgia penitenziale dei vescovi con Papa Francesco che chiedono perdono a Dio per gli abusi commessi: “Donaci il coraggio di dire la verità e la sapienza per riconoscere dove abbiamo peccato”
di FABIO BERETTA
Città del Vaticano – “Confessiamo che vescovi, presbiteri, diaconi e religiosi nella Chiesa hanno commesso violenze nei confronti di minori e di giovani e che non siamo riusciti a proteggere coloro che avevano maggiormente bisogno della nostra cura. Confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e abbiamo ridotto al silenzio chi ha subito del male. Confessiamo che non abbiamo riconosciuto la sofferenza di molte vittime e non abbiamo offerto aiuto quand’era necessario. Confessiamo che spesso noi vescovi non siamo stati all’altezza delle nostre responsabilità“.
E’ un solenne mea culpa, quello pronunciato questa sera dai vescovi cattolici, riuniti in Vaticano per il Summit sulla protezione dei minori. Nella Sala Regia del Palazzo Apostolico, trasformata per l’occasione in cappella, cardinali e monsignori, stretti attorno alla figura di Papa Francesco, hanno pregato davanti all’immagine del crocifisso che domina l’enorme sala.
La liturgia penitenziale è scandita da salmi e canti; poi la parola del “Figliol prodigo”. Dopo l’omelia, pronunciata da mons. Philip Naameh, presidente dei vescovi del Ghana, non manca, tra le pareti affrescate della Sala Regia, una commossa testimonianza sul devastante dramma della pedofilia: “L’abuso, di qualsiasi tipo, è l’umiliazione più grande che un individuo possa subire“, racconta in spagnolo un giovane sopravvissuto.
Ed è Papa Bergoglio, che ha fortemente voluto questo storico incontro, a guidare l’esame di coscienza:
Per tre giorni ci siamo parlati e abbiamo ascoltato le voci di vittime sopravvissute a crimini che minori e giovani hanno sofferto nella nostra Chiesa. Ci siamo chiesti l’un l’altro: ‘come possiamo agire responsabilmente, quali passi dobbiamo ora intraprendere?’ Per poter entrare nel futuro con rinnovato coraggio, dobbiamo dire, come il figlio prodigo: ‘Padre, ho peccato’. Abbiamo bisogno di esaminare dove si rendono necessarie azioni concrete per le Chiese locali, per i membri delle Conferenze Episcopali, per noi stessi. Ciò richiede di guardare sinceramente alle situazioni creatasi nei nostri Paesi e alle nostre stesse azioni.
Poi, una lunga serie di domande, scandite dalla voce di un presule che riecheggia tra gli affreschi cinquecenteschi della Sala Regia:
Quali abusi sono stati commessi contro minori e giovani dal clero e da altri membri della Chiesa nel mio Paese?
Che cosa so delle persone che nella mia diocesi sono state abusate e violate da preti, diaconi e religiosi?
Come nel mio Paese la Chiesa si è comportata con quanti hanno subito violenze di potere, di coscienza e sessuali?
Quali ostacoli abbiamo messo nel loro cammino? Li abbiamo ascoltati?
Abbiamo cercato di aiutarli? Abbiamo cercato giustizia per loro?
Nella Chiesa del mio Paese, come ci siamo comportati con vescovi, presbiteri, diaconi e religiosi accusati di violenze carnali?
Come, nei riguardi di coloro i cui crimini sono stati appurati?
Che cosa ho fatto di persona per impedire le ingiustizie e garantire la giustizia? Che cosa ho trascurato di fare?
Nei nostri Paesi, quale attenzione abbiamo prestato alle persone la cui fede è stata scossa, che hanno sofferto e sono state indirettamente ferite da questi terribili fatti?
Esistono delle forme di aiuto per le famiglie e i parenti delle vittime?
Quali passi abbiamo intrapreso nei nostri Paesi per impedire nuove ingiustizie?
Domande intervallate dai continui “Kyrie, eleison“, “Signore, pietà”, che salgono al cielo come l’incenso acceso ai piedi dell’imponente crocifisso posto al centro della Sala.
Poi, il solenne mea culpa: “Confessiamo che vescovi, presbiteri, diaconi e religiosi nella Chiesa hanno commesso violenze nei confronti di minori e di giovani e che non siamo riusciti a proteggere coloro che avevano maggiormente bisogno della nostra cura. Confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e abbiamo ridotto al silenzio chi ha subito del male. Confessiamo che non abbiamo riconosciuto la sofferenza di molte vittime e non abbiamo offerto aiuto quand’era necessario. Confessiamo che spesso noi vescovi non siamo stati all’altezza delle nostre responsabilità”. Infine, una supplica: “Donaci il coraggio di dire la verità e la sapienza per riconoscere dove abbiamo peccato“.
Signore, concentra il nostro sguardo sull’essenziale, fa’ che ci spogliamo di tutto quello che non aiuta a rendere trasparente il Vangelo di Gesù Cristo. #PBC2019
— Papa Francesco (@Pontifex_it) February 23, 2019
“Basta cultura silenzio, i processi siano trasparenti”
In mattinata, sono proseguiti i lavori del Summit. Nel terzo giorno, quello dedicato alla “trasparenza”, è la voce dell’arcivescovo di Monaco, il cardinal Marx, capo dell’episcopato tedesco nonché stretto collaboratore del Papa come coordinatore del Consiglio per l’Economia e membro del Consiglio dei cardinali, a delineare le cause di questo “mostro”:
Gli abusi sessuali sui minori sono in non lieve misura dovuti all’abuso di potere nell’ambito dell’amministrazione. E a tale riguardo, l’amministrazione non ha contribuito ad adempiere la missione della Chiesa ma, al contrario, l’ha oscurata, screditata e resa impossibile. I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. Le procedure e i procedimenti stabiliti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, e anzi cancellati o scavalcati. I diritti delle vittime sono stati di fatto calpestati e lasciati all’arbitrio di singoli individui. Sono tutti eventi in netta contraddizione con ciò che la Chiesa dovrebbe rappresentare.
Poi, nel briefing con i giornalisti, il porporato si è soffermato sui “dossier distrutti”, di cui aveva accennato nella sua riflessione durante il Summit, spiegando di aver riferimento a a quanto riportato dallo studio Mhg sulla Chiesa tedesca: “Certi dossier non contenevano quanto avrebbero dovuto contenere. Magari se un prete pedofilo arrivava in una diocesi il vescovo non aveva neanche informazioni sul suo passato. L’analisi a posteriori ci dice che non si può andare avanti così“.
Qualcuno gli domanda se le sue denuncia riguardino anche il Vaticano. La risposta: “Io posso dire solo quello che ho detto. Il resto sono solo supposizioni. Non ho informazioni rispetto ad altri casi: io ho informazioni sulla Germania, ma presumo che la Germania non sia un caso isolato“.
Signore, liberaci dalla tentazione di voler salvare noi stessi, la nostra reputazione; aiutaci a farci carico della colpa e a cercare insieme risposte umili e concrete in comunione con tutto il Popolo di Dio. #PBC2019
— Papa Francesco (@Pontifex_it) February 22, 2019
Nella sua relazione, la seconda della giornata, il cardinale tedesco avverte che “la tracciabilità e la trasparenza non arrivano dal nulla. Sono un impegno costante, che si può adempiere anche con il sostegno di esperti esterni alla Chiesa”.
Ad esse, comunque, “non esistono alternative“. E “data l’urgenza del tema, le misure più importanti devono essere avviate immediatamente”. Tra queste include: la “definizione del fine e dei limiti del segreto pontificio”; “norme procedurali trasparenti e regole per i processi ecclesiastici”; “la comunicazione al pubblico del numero dei casi e dei relativi dettagli per quanto possibile” (“la diffidenza istituzionale – osserva – porta a teorie cospirazioniste. Lo si può evitare se i fatti vengono esposti in modo trasparente”); infine la “pubblicazione degli atti giudiziari”.
Le corrette procedure giuridiche servono a stabilire la verità e costituiscono la base per comminare una punizione proporzionata all’offesa. Inoltre, stabiliscono fiducia nell’organizzazione e nella sua leadership. Il persistere di dubbi su una condotta appropriata delle procedure processuali non fa altro che danneggiare la reputazione e il funzionamento di un’istituzione. Questo principio si applica anche alla Chiesa.
Nuove proposte per combattere la piaga degli abusi arrivano dall’arcivescovo di Malta, mons. Charles J. Scicluna, che, oltre a indicare che ovunque vanno aperti sportelli per la raccolta delle denunce e che le vittime vanno maggiormente coinvolte nei processi canonici, pone i riflettori “sul segreto pontificio”.
C’è un movimento nell’Aula che dice di andare avanti. Al di là delle normali cautele di riservatezza, non si possono vincolare le procedure con questo istituto antico che a volte è anche oggetto di scherno.
Le strazianti testimonianza delle vittime
Nel pomeriggio, prima della celebrazione penitenziale, i vescovi e il Papa ascoltano l’ennesima raccapricciante testimonianza di una vittima di abusi. A raccontarla è una ragazza che denuncia una violenza commessa in Italia.
I presenti, compreso il Papa, ascoltano in silenzio, molti a capo chino, quasi trattenendo il respiro. E in breve si fanno strada le lacrime.
Buonasera, volevo raccontarvi di quand’ero bambina. Ma è inutile farlo perché a 11 anni un sacerdote della mia parrocchia ha distrutto la mia vita. Da allora io, che adoravo i colori e facevo capriole sui prati spensierata, non sono più esistita. Restano invece incise nei miei occhi, nelle orecchie, nel naso, nel corpo, nell’anima tutte le volte in cui, lui, bloccava me bambina con una forza sovrumana: io mi anestetizzavo, restavo in apnea, uscivo dal mio corpo, cercavo disperatamente con gli occhi una finestra per guardare fuori, in attesa che tutto finisse. Quando terminava, riprendevo quello che era il mio corpo, ferito e umiliato e me ne andavo credendo persino di essermi immaginata tutto. Pensavo: “sarà stata sicuramente colpa mia!” o “mi sarò meritata questo male?”. Questi pensieri sono le più grandi lacerazioni che l’abuso e l’abusatore ti insinuano nel cuore, più delle ferite stesse che lacerano il corpo. Sentivo di non valere ormai più nulla, neppure di esistere. Volevo solo morire: ci ho provato… non ci sono riuscita. L’abuso è continuato per 5 anni. Nessuno se n’è accorto. Mentre io non parlavo, il mio corpo ha iniziato a farlo: disturbi alimentari, ospedalizzazioni varie. Dopo molti anni mi sono innamorata, ma avevo paura. Per non farmi sentire il dolore, lo schifo, la confusione, la paura, la vergogna, l’impotenza, l’inadeguatezza, la mia mente ha rimosso i fatti avvenuti, ha anestetizzato il corpo mettendo delle distanze emotive rispetto a tutto ciò che vivevo facendo in me danni enormi. A 26 anni il primo parto il travaglio bloccato; mio figlio in pericolo; l’allattamento reso poi impossibile per i terribili ricordi che affioravano. Credevo di essere impazzita. Allora mi sono confidata con mio marito, confidenza usata poi contro di me durante la separazione, quando, in nome dell’abuso subíto, chiedeva che mi fosse tolta la potestà genitoriale quale madre indegna. Uno strazio che non guarisce, fino all’ascolto paziente di una cara persona e il coraggio di scrivere una lettera a quel sacerdote. Da allora continuo un durissimo percorso di rielaborazione che non ha scorciatoie, che richiede un’enorme costanza per ricostruire in me identità, dignità e fede. L’abuso crea un danno immediato, ma non solo: più difficile è fare i conti ogni giorno, con quel vissuto che ti invade e si presenta nei momenti più improbabili. Ci dovrai convivere…sempre!. “Dov’eri, Dio?”… Quanto ho pianto su questa domanda! Un uomo che ‘profumava’ di Dio! mi ha inferto solo dolore, un dolore amplificato dalla gravissima incoerenza di chi, di fronte a questi crimini, ha minimizzato, nascosto, messo a tacere, o ancor peggio non ha difeso i piccoli, limitandosi meschinamente a spostare i sacerdoti a nuocere da altre parti. Noi vittime, se riusciamo ad avere la forza di parlare o denunciare, dobbiamo trovare il coraggio di farlo pur sapendo che rischiamo di non essere credute o di dover vedere che l’abusatore se la cava con una piccola pena canonica. Ciò non può e non deve essere più così! Ho impiegato 40 anni per trovare la forza della denuncia. La Chiesa può andare fiera della possibilità di procedere in deroga ai tempi di prescrizione (diritto negato dalla giustizia italiana), ma non del fatto di riconoscere come attenuante, per chi abusa, l’entità del tempo trascorso tra i fatti e la denuncia (come nel mio caso). La vittima non è colpevole del suo silenzio! Il trauma e i danni subiti sono tanto maggiori quanto più è lungo il tempo del silenzio, che la vittima trascorre tra paura, vergogna, rimozione e senso di impotenza. Le ferite non vanno mai in prescrizione, anzi!
(Il Faro online) – Foto © Vatican Media