Atletica, il racconto di Pietro Mennea nelle parole di Gianni Minà
Sulla rivista Atletica nel 2010 il lungo racconto in due puntate: “Se devo dire la dote tecnica e umana che ha caratterizzato la sua storia…la rimonta”
Roma – Nei giorni del cordoglio per l’addio a Gianni Minà, scomparso a 84 anni (leggi qui), riproponiamo su fidal.it il lungo racconto in due puntate dedicato alla leggenda Pietro Mennea, firmato dallo storico giornalista e pubblicato nel 2010 sulla rivista Atletica, edita dalla Federazione Italiana di Atletica Leggera.
di Gianni Minà
Mennea, una vita in rimonta (Atletica, maggio-giugno 2010)
Mennea, quei tre anni di purissimo oro (Atletica, luglio-agosto 2010)
“Se devo dire adesso, nel momento in cui Pietro Mennea ha cinquantotto anni, quale è stata la dote tecnica e umana che ha caratterizzato la sua storia di campione olimpico e primatista mondiale nei 200 metri, credo di non sbagliare indicando la “rimonta” come costante delle sue caratteristiche atletiche e la “rivincita” come indiscutibile capacità a coltivare questo obiettivo nella vita, e di raggiungerlo. Da quando, alle Olimpiadi di Monaco di Baviera nel ’72, appena ventenne, vinse la medaglia di bronzo nei 200 metri dietro al fuoriclasse ucraino Valerij Borzov e al nero nordamericano Larry Black, Pietro Mennea da Barletta, “ragazzo del Sud senza pista”, ha sempre inseguito e rimontato avversari nella sua magica carriera di velocista e si è sempre preso rivincite, per alcuni critici inattese, non solo nello sport ma anche nella vita quotidiana. Alcune di queste rivincite, per un caso del destino, si sono materializzate, oltre che alle Olimpiadi, anche ai campionati europei di atletica di Roma ’74 e Praga ’78, tanto che la ventesima edizione di questa competizione regala ai nostri ricordi di cronisti un significato particolare, quasi romantico. La leggenda racconta che questo cocciuto figlio di un sarto e di una casalinga, ricco di tutta la testardaggine del sud e povero di tutti i privilegi del nord, a quindici anni si guadagnasse cinquecento lire, per pagarsi un cinema e un panino, smentendo su uno stradone periferico della sua città chi era convinto che su cinquanta metri non avrebbe potuto precedere una Porsche color aragosta e un’Alfa Romeo 1750 rossa, sulle cui accelerazioni scommettevano i più. E il suo modo di mordere la vita non è mai cambiato.
Una delle prime grandi rincorse sportive della sua lunga carriera che lo portò, fino a trentasei anni, a correre in cinque Olimpiadi, dopo ritiri e ritorni clamorosi, è quella che prese l’abbrivio nei Giochi tragici del ’72, dove la follia terrorista di un gruppo di palestinesi aderente all’organizzazione Settembre Nero aveva messo in piedi un attentato contro atleti israeliani che, per l’altrettanto folle intransigenza della polizia della Germania federale, produsse alla fine un massacro. In quel contesto estremo dove, ancora una volta le Olimpiadi, mai indipendenti dalla politica, avevano ribadito l’impossibilità di mettere in atto gli obiettivi di pace per cui erano nate, le storie vincenti cominciate in quei giorni del pugile cubano Teófilo Stevenson (in seguito tre volte trionfatore ai Giochi) o di un ragazzo del nostro sud come Mennea riscattarono, anche se solo in parte, quel drammatico fallimento dello spirito sportivo. Il nero Teófilo, che sarebbe diventato un vero fuoriclasse, aveva messo ko nei quarti di finale il nordamericano Duane Bobick, avventatamente soprannominato “la speranza bianca”, e poi il tedesco Peter Hussing, prima che il romeno Alexe si ritirasse dalla finale. Stevenson avrebbe continuato con questo ritmo da schiacciasassi fino ai Giochi di Mosca dell’80 e non avrebbe raggiunto il record di quattro medaglie d’oro olimpiche (in seguito riuscito al suo connazionale Felix Savon) solo perché nel 1984 i cubani, come tutti i paesi del blocco socialista, boicottarono per ripicca i Giochi di Los Angeles come gli Stati Uniti e alcune nazioni occidentali avevano fatto nell’80 contro Mosca, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan.
Pietro Paolo Mennea, un pò lento in partenza e con un fisico che a vederlo non prometteva trionfi, aveva invece conquistato una splendida medaglia di bronzo nei 200 metri, con quell’incedere rabbioso sul rettilineo per recuperare dai travagli iniziali, che sottolineava quanto per lui fosse inaccettabile psicologicamente la sconfitta, anche di fronte a due avversari possenti e coordinati come il nero americano Black e lo “zar” russo Borzov. Era sembrato l’inizio, anche per lui, di un cammino senza ostacoli e invece già un anno dopo, nel 1973, era li a combattere, come sempre quasi da solo, con un infortunio forse dovuto ad allenamenti troppo serrati e clinicamente denominato “osteocondrosi della sinfisi pubica”. Un incidente che gli avrebbe fatto vivere una vera odissea. Il responso, alla fine delle visite specialistiche, era stato disarmante: “Probabilmente – ha scritto Mennea in un libro autobiografico – non sarei mai più guarito completamente e se anche avessi continuato a correre sarebbe stato impossibile tornare ad alti livelli. In una parola, la mia carriera sembrava finita”. La rincorsa era dunque cominciata da una condizione che vietava ogni possibilità di illusione, ma quel ragazzo pugliese, spesso un po’ scomposto, quando cercava di rimontare in curva una partenza lenta, non era tipo da piangersi addosso: “Non potevo darmi per vinto, non volevo rassegnarmi, perché questo non faceva parte del mio carattere”. Così si era rifugiato per un po’ di tempo in famiglia a Barletta e, dopo un solitario e deludente pellegrinaggio in alcuni centri specializzati del nostro paese, aveva trovato il suo possibile salvatore a Pavia, presso l’ospedale San Matteo. Il Professor Boni aveva proposto alcune infiltrazioni di un antinfiammatorio che lui stesso avrebbe iniettato una volta a settimana. Mennea lo raggiunse dovunque. Furono mesi faticosi e senza nessuna certezza, ma alla fine il miglioramento risultò reale.
GLI EUROPEI DI ROMA
Mancavano solo novanta giorni agli Europei di Roma e Pietruzzo sapeva che c’era già chi lo credeva finito, una meteora, che alla manifestazione sarebbe andato solo per fare presenza. Ma “Non esiste notte oscura che non sia preludio di nuova aurora”, scrisse Pietro nel suo libro. Oltretutto Mennea sentiva che per essere sicuro di aver ritrovato se stesso doveva superare Borzov, che due anni prima a Monaco lo aveva battuto e che ora, pur onusto di gloria e pieno di medaglie, rappresentava il mondo di ieri dell’atletica e non quella che stava per affermarsi. Entro poco sarebbe tornata d’attualità la scuola dei velocisti neri degli Stati Uniti e delle colonie britanniche, ma in questo caso si sarebbero affrontati ancora due europei rappresentanti di concezioni esistenziali ed atletiche diverse. Due sistemi culturali, anche per quanto riguarda l’interpretazione dello sport e dell’allenamento. Il primo avanzato e cosmopolita, già vicino alle azzardate sperimentazioni della nuova atletica tecnologica, il secondo basato principalmente sul sacrificio dell’atleta, sul suo lavoro in solitudine, per molti aspetti ancora ingenuo e provinciale. Uno scontro che prometteva scintille, ma non si sprigionarono completamente. Lo “zar” Borzov, dotato di una classe indiscutibile e di un’esperienza che il giovane italiano ancora non aveva, fu ben attento nel risparmiare le energie nei turni eliminatori dei 100, ben sapendo di non essere in condizioni fisiche eccezionali, e si accontentò di vincere con un modesto 10.27. Un successo frutto più che altro di qualità psicologiche che l’aiutavano a tenere in soggezione gli avversari. Mennea fu secondo, schiumando vendetta, che non poté esprimere completamente perché Borzov disertò i 200, la gara nella quale Pietro si realizzava a pieno. La scusa dell’ucraino fu che si doveva preservare per aiutare i compagni nella staffetta 4×100, ma era poco credibile. La parte del protagonista era già passata al giovane italiano, forgiato dal burbero e rigoroso prof. Vittori.
Mennea vinse, con l’oro nei 200, la sua seconda medaglia in quegli Europei di Roma e trascinò i suoi compagni Guerini, Oliosi e Benedetti alla medaglia d’argento dietro ai francesi ma davanti ai capziosi russi, nella staffetta 4×100. Una lezione alle tattiche di Borzov che segnava anche la prima rincorsa riuscita, delle tante che Mennea avrebbe intrapreso in quel periodo, sul finire degli anni ’70. Già allora Pietruzzo, molto solitario, molto chiuso in se stesso, non era amatissimo da tutto l’apparato federale, e nemmeno era amato Vittori, resistente all’atletica “spettacolo” che il presidente Primo Nebiolo aveva in mente di edificare e stava edificando. Tanto per dare un esempio, il crescendo di successi di Mennea in quegli Europei di Roma era stato archiviato così nella rivista federale: “Per essere stato l’atleta più premiato, pure Pietro Mennea è degno di menzione onorevole”. Piccolo particolare da non dimenticare: nelle qualificazioni per la finale dei 100, dove Borzov aveva preceduto Pietro, erano rimasti per strada, vittime illustri, il finlandese Vilen e il greco Papageorgopoulos, in quel momento co-primatisti europei dei 100, insieme appunto a Borzov, con 10’’ netti. E nella finale dei 200, disertata da Borzov, Mennea aveva vinto l’oro malgrado il tedesco Ommer (poi secondo) avesse dato una seria impressione di essere partito in anticipo, di aver “rubato” l’attimo fuggente allo start, e il nostro testardo campione di Barletta fosse stato invece condizionato da un avvio lento.
I PREGIUDIZI DI GIANNI BRERA…
Perfino il grande Gianni Brera, uno dei pochi giornalisti che conosceva veramente l’atletica, facendo la storia dei nostri scattisti di successo, da Berruti a Mennea, passando per la fugace stagione di Ottolina, non aveva saputo rinunciare, davanti al crescendo del ragazzo di Barletta, ai suoi pregiudizi, definendo Mennea “un fiore prodigioso sbocciato nella confusa giungla del nostro etnos, depauperato in troppi secoli di stenti e di umiliazioni”. Insomma, Brera aveva attribuito il merito del fiorire delle medaglie di Pietro solo al lavoro dei tecnici che erano riusciti, in qualche modo, a prevalere sui limiti fisici concessi dalla natura a noi italiani, specie quelli del sud. Il grande Gianni si era dimenticato che i tecnici di Mennea erano in realtà uno solo, il professor Carlo Vittori, e che la rimonta in atto del “ragazzo del sud senza pista” era dovuta, malgrado il suo fisico stortignaccolo, al talento che la natura gli aveva regalato per l’atletica e alla sua caparbietà, alla sua predisposizione al sacrificio negli allenamenti. Questa dote gli avrebbe fatto ottenere, nel corso della carriera, risultati superiori a quelli dell’elegante Berruti e, nonostante i campioni che si sarebbero affiancati a lui da quegli Europei di Roma in avanti avessero goduto normalmente di una spanna in più di altezza e di possanza.
Il miracolo (ci scusi il grande Gianni Brera) stava proprio nella sua struttura fisica assolutamente vincente ma che scompigliava tutte le teorie, tutti i dogmi fino a quel momento in auge nell’atletica. Così non erano pochi quelli che, per pregiudizio o per incapacità di accettare un campione diverso nel modo di essere o di esprimersi, sopportavano con sufficienza i successi di questo ragazzo, non disposto per di più a regalare il suo talento ad una struttura poco incline, malgrado le entrate pubblicitarie, a retribuirlo come meritava. Lo stesso sarebbe successo a Sara Simeoni che, con Mennea, in quegli anni, avrebbe reso grande l’atletica-spettacolo di Primo Nebiolo, senza esserne gratificata adeguatamente. La tensione con l’apparato federale, purtroppo, non si attenuò mai e costò a Mennea l’Olimpiade di Montreal del ’76, dove il campione si presentò sfibrato, esausto, per il braccio di ferro con la Fidal che era durato mesi, dopo che Vittori, anche lui in polemica con l’apparato, era stato costretto a mollare tutto, ritirandosi ad insegnare ad Ascoli Piceno. Vittori fu costretto a seguire Pietro alle Olimpiadi di Montreal a titolo privato. Per il mondo dell’atletica quelli furono i giochi di Alberto Juantorena, scultoreo cubano vincitore in tre giorni di due medaglie d’oro nelle “gare dell’asfissia”, quelle dei 400 e degli 800 metri, che vinse sfiorando il record del mondo nel giro di pista e frantumandolo invece negli 800 (1’43”50). Avrebbero potuto essere anche i giochi di Mennea che, invece, “arrivò solo quarto” nella finale dei 200, vinta dal giamaicano Don Quarrie davanti ai nordamericani Millard Hampton e Dwayne Evans, due meteore nel grande nascente circo dell’atletica leggera. La rincorsa di Pietro nei riguardi di Quarrie, secondo il suo carattere, partì un attimo dopo la delusione di non essere salito sul podio a Montreal, anche se i grandi esperti della nostra atletica scrivevano fin dalla vigilia veri e proprio necrologi sulla sua carriera, che reputavano ormai consumata e finita.
…E QUELLI DI GIOVANNI ARPINO
Lo scrittore Giovanni Arpino su La Stampa fu spietato: “Mennea passeggia scheletrico, le orbite troppo grandi, nel verde rasato e fortificato del villaggio”. Un amico giornalista gli dice: “Mi scusi, lei somiglia a qualcuno che conosco, un certo Mennea da Barletta. Siete proprio uguali. Lo conosce? Ma no, non è possibile. Quello là è rimasto in Italia”. Più avanti il piemontese Giuan, autore dell’indimenticabile «Profumo di donna», ricordava una convinzione proprio di Vittori, secondo la quale puoi lavorare a puntino sulla cosiddetta macchina umana, cioè sul “motore” di un atleta, ma poi da quella macchina spunta fuori l’uomo e mesi, anni, di lavoro possono andare talvolta a farsi benedire. E aggiungeva: “Altri sostengono che l’introverso, l’ingenuo Mennea trionfava nei suoi momenti belli perché i suoi muscoli vincevano il confronto con l’intelligenza. Ribaltato il rapporto ecco che l’intelligente Mennea si scopre diverso, ha paura, teme la sconfitta, la fine della giovinezza, teme di retrocedere nell’antica terra di nessuno, tipica e fatale per tanti ragazzi del Sud. Finché non ragionava era una scheggia”. E questo non era fra gli articoli più cattivi. Per fortuna anche gli scrittori più dotati come Arpino, di uno come Mennea, non avevano capito niente e avevano sottovalutato il fatto che, pur sballato dalle tensioni, il ragazzo di Barletta era comunque risultato, nella finale di Montreal, il quarto al mondo nella corsa dei 200.
GLI EUROPEI DI PRAGA
L’occasione per la prima clamorosa rivincita, dopo le Olimpiadi di Montreal ‘76 (quarto posto nei 200) e un paio d’anni contraddittori, si presentò nel 1978 agli Europei di Praga, disputati in un panorama umido caratterizzato da basse temperature e da un apparato di sicurezza da vera “guerra fredda”. Pietro splende subito, fin dalla seconda giornata, quella di mercoledì 30 agosto, nella quale non solo conferma che il suo 10’19, record italiano sui 100 stabilito il giorno prima, non era venuto per caso, ma che è pronto per una delle sue leggendarie rimonte, che faranno epoca. Vince i 100, distanza non sempre in sintonia con il suo genio. Dietro di lui il tedesco dell’est Eugen Ray e il russo Vladimir Ignatenko. La “leggenda” Borzov, ormai sul viale del tramonto, arriva ultimo, ma per fortuna nessuno definisce quel piazzamento “solo ottavo”. La prima frase che Mennea pronunciò, mentre ancora prendeva fiato e davanti ad un plotone di giornalisti italiani costretti a sfidare i modi spicci dei poliziotti di un paese del patto di Varsavia, fu: «Ringrazio il Signore, perché mi ha fatto arrivare in salute fin qui. Dedico la medaglia, tutta intera, a Carlo Vittori». Tenero. Ma ai cronisti italiani di atletica questa retorica, allora, dava proprio ai nervi. Ora forse la rimpiangono, perché Pietro due giorni dopo, il primo settembre, continuando la sua rimonta sul destino, li obbligava a rimangiarsi lo scetticismo che accompagnava i loro commenti dalla debacle di Montreal, vincendo anche i 200, davanti al tedesco dell’Est Olaf Prenzler e allo svizzero Peter Muster. La «Gazzetta dello Sport», sottolineando il suo polemico dito indice levato verso l’alto dopo la vittoria aveva titolato: Mennea fantastico bis.
Qualcuno avrà goduto quell’ulteriore trionfo con malavoglia, ma i fatti dicevano che il rabbioso Pietruzzo aveva conquistato il suo terzo titolo europeo in quattro anni, il secondo consecutivo in tre giorni, al termine di sei turni di gare con un tempo che sui 200 era in quell’anno il terzo del mondo, e tutto questo in condizioni ambientali assai ardue per un velocista (12 gradi e un’umidità dell’85%). Senza contare che il nostro campione aveva centrato agli Europei una straordinaria doppietta, vantata in quel momento soltanto da altri quattro atleti: i due olandesi Berger e Osendarp nel ’34 e nel ’38, il tedesco Futterer nel ’54 e proprio Borzov nel ’71. Ma il burbero Vittori, che dopo il successo nei 100 aveva quasi corso il rischio di spendere una lacrima, questa volta non concesse al suo allievo più di uno scarno commento tecnico: «Ha fatto una brutta curva. Per forzare troppo ha “remato” con la mano destra prima di entrare nel rettilineo. Poi è stato bravissimo a rimettersi a posto, a distendersi, e ad andare sciolto…». Il suo allievo era stato più romantico: «Proprio quando sembra disarmato e sconfitto il vero combattente rivela se stesso». In quell’edizione degli Europei, che vide la guerra fratricida negli 800 fra gli inglesi Coe e Ovett, una rivalità estrema che aveva favorito la rimonta e la vittoria del ventunenne tedesco dell’Est Olaf Beyer, l’Italia si illuse della nascita di un movimento atletico che invece non avvenne.
SI ACCENDE LA STELLA DI SARA SIMEONI
Nella rassegna di Praga, oltre al riscatto di Mennea, si rivelò infatti anche la stella di Sara Simeoni, medaglia d’oro nell’alto femminile davanti alla tedesca federale Ackermann con un 2,01 che eguagliava il suo fresco primato del mondo. Mennea avrebbe trascinato anche le staffette azzurre 4X100 (Grazioli, Caravani, Curini e Pietro) e 4X400 (Tozzi, Zanini, Malinverni e Pietro) rispettivamente al quinto e al secondo posto, arrivando a disputare dieci gare in una settimana. Un esempio di dedizione, un atto di generosità, che non avrebbe però commosso più di tanto l’apparato della Fidal, ormai conquistato dall’atletica-spettacolo e che, nel finale di una stagione già tanto onerosa, prevedeva in autunno una passerella in Cina dei nostri campioni, per un viaggio elettorale che Primo Nebiolo, candidato al vertice mondiale dell’atletica, reputava fondamentale per le sue relazioni politiche. Ma Mennea e Vittori la pensavano diversamente. Adesso coltivavano il sogno del record mondiale dei 200, stabilito dieci anni prima da Tommy Smith, esempio nobile di un “rivoluzionario” nello sport e nella vita. Proprio la sera della seconda medaglia d’oro di Mennea a Praga, Vittori d’altronde aveva assicurato a Giampiero Boniperti, presidente della Sisport, la società a cui era affiliato il campione: «Pietro Mennea, caro Giampiero, vale comunque meno di 20’’ netti sui 200 e meno di 10” e 10 sui 100. Su questo mi gioco la reputazione». Così Mennea non andò in tournée e la Fidal lo squalificò per tre mesi, anche se la punizione non aveva effetti pratici, perché era inverno, quando in occidente non ci sono gare. «A distanza di tempo, con il senno di poi, posso serenamente dire – ha spiegato il campione – che quel contrasto nasceva da una questione antica: il confine nella vita di un atleta tra l’appartenenza a una nazionale e l’appartenenza a se stessi, tema delicato, complesso».
Quell’ingiusta squalifica servì però a Mennea per cercare cocciutamente, l’anno successivo, il 1979, quell’eccellenza assoluta, quel record del mondo che rincorreva da tempo. Quando stava per partire per il Messico, con l’obbiettivo di cercare alle Universiadi la realizzazione della sua scommessa, nuovamente sorse il problema della solita tournée in Oriente. Questa volta, l’ho già raccontato in un libro e vale la pena ricordarlo su questa rivista, intervenne personalmente Luca di Montezemolo, allora, negli anni di piombo, capo delle relazioni esterne della Fiat, casa madre della Sisport. L’impegno per la tournèe in Oriente non era fra quelli concordati a inizio stagione fra la Federazione e la società a cui era affiliato Mennea e quindi il campione non avrebbe partecipato a quel defilé. Pietro, una volta tanto, si sentì tutelato e scortato dal fratello di Montezemolo, Daniele, ora manager affermato nel settore dell’abbigliamento, partì per Città del Messico sognando di vincere l’ennesima sfida.
IL RECORD DEL MONDO IN MESSICO
Cominciarono le competizioni in uno stadio grande ma con pochi spettatori, destino del Messico che, grazie al colosso della comunicazione Televisa, spesso poteva essere all’avanguardia nell’organizzazione di grandi eventi, come le Olimpiadi del ’68 e i Mondiali di calcio del ’70, ma non era ancora riuscito a creare nel paese una coscienza sportiva. Mennea cominciò subito a strabiliare, confermando la legittimità dei due ori europei vinti l’anno prima a Praga e il record europeo di Borzov sui 100 eguagliato in maggio con 10” netti. Ma nelle gare pre-Universiadi, all’inizio, il cronometraggio era manuale, così il suo 19’’80 in un test del 3 settembre non aveva impressionato i giornalisti nordamericani, che lo ignoravano. Si era preoccupato, come ricorda Pietro, solo Mel Lattany, un ventenne nero Usa che aveva commentato lapidariamente “Jesus Christ!”, leggendo sul cartellone il tempo di quel “magretto” in maglia azzurra che nello stadio ritenevano un francese di nome Menea, con una N sola. I presuntuosi colleghi yankee, evidentemente dimentichi del terzo posto di Pietro nei 200 alle Olimpiadi di Monaco e del quarto a Montreal, incominciarono a ricredersi dopo il 20’’04 della semifinale, nella quale, però, credemmo che Mennea avesse perso l’attimo fuggente per il record del mondo. Non era così, e Mennea ancora una volta fu capace di smentire tutti nella finale delle Universiadi, corsa con l’orgoglio in bocca.
Ero in campo con l’indimenticabile Paolo Frajese, lui per il Tg1 e io per il Tg2. Entrambi con in mano un “nagrino”, un registratore elettronico di cui la Rai ci aveva appena dotato e che dimenticavamo sistematicamente di accendere, non essendovi abituati. Quando Mennea, con la tenacia di vero figlio del sud, e dando ragione a Vittori, l’unico che credeva in quel riscatto, piombò su di noi stabilendo il record del mondo che cancellava Tommy Smith, ovviamente mi dimenticai di accendere quell’aggeggio. Quando me ne accorsi Pietro fu comprensivo e mi permise di rifare la domanda, rispondendo con le stesse parole con cui aveva accolto il mio abbraccio dopo il traguardo. Ma la voce, pur ancora spezzata dai sussulti della corsa, non aveva più la stessa drammaticità dell’attimo in cui aveva tagliato il traguardo, stabilendo il record di 19’’72. Un momento commovente che, dato l’eterno contrasto fra Mennea e l’ambiente spesso troppo succube alle lusinghe del potere, fu accolto da qualcuno anche con invincibile acidità. Livio Berruti, il primo italiano a vincere la medaglia d’oro nei 200 alle Olimpiadi del ’60, non seppe per esempio risparmiarsi la stilettata “Mennea il record lo ha stabilito correndo in altura”, dimenticando però che anche Tommy Smith aveva corso in 19’’83 in quella stessa pista in Messico. Successivamente, per esigenze dell’atletica spettacolo, proprio Nebiolo, per alcuni anni, tentò di far battere il record di Mennea riunendo ai 2000 metri del Sestriere i migliori velocisti del mondo, compreso Michael Johnson. Ma non ci riuscirono mai, tanto che il record del “ragazzo del sud senza pista” resistette per 17 anni prima di essere battuto proprio da quel fenomeno di Johnson alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, con 19’’32.
L’ORO AI GIOCHI DI MOSCA
L’anno dopo, in un’Olimpiade, quella di Mosca del 1980 allo stadio Lužniki, che rischiò di non effettuarsi per il boicottaggio politico degli Stati Uniti, e che quindi fu vicina a cancellare per sempre la possibilità di Mennea di vincere ai Giochi, Pietruzzo da Barletta, dopo la più sconsiderata partenza lenta della sua storia, effettuò la più incredibile rimonta che sia mai stata fatta in una finale olimpica dei 200, e per un niente sconfisse l’inglese Alan Wells, nuova stella della corsa veloce. Terzo il giamaicano Don Quarrie. Tutti i conti del “ragazzo del Sud senza pista” erano stati così saldati. Ma perchè non ci fossero equivoci Pietro, nei meeting dell’estate che seguono sempre le Olimpiadi, si impegnò come un forsennato per battere puntigliosamente anche tutte le stelle nordamericane e caraibiche che avevano disertato Mosca. Al Golden Gala, che nacque proprio quell’anno, fece addirittura “straike”, come si dice nel gioco del bowling, davanti a 60.000 spettatori: con un eccezionale 20’’01 infilò in una sola sera Don Quarrie e i due nordamericani Steve Williams e Frederick Taylor. Due settimane dopo, nella natia Barletta che si era riversata allo stadio per festeggiare il ragazzo di casa, con 19’’96 (miglior prestazione mondiale dell’anno) fece secco il trio gringo Roberson, Taylor e Willey. Questo tipo di impresa, per tutta l’estate, si ripeté contro tutti per un desiderio di rivincita che fra l’altro lo ha obbligato a prendere tre lauree ed è stato il motore del suo successo, oltre che il segreto della sua incapacità di accettare la sconfitta. (Fonte fidal.it)
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