Faccia a faccia con la guerra: gli inviati tra missili e bombe
Migliaia di corrispondenti, negli ultimi 20 anni, sono stati uccisi in territori di guerra. Senza di loro, la verità rimarrebbe sepolta sotto un manto di silenzio
Nel giorno in cui si celebra la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa (leggiqui), c’è chi è sotto le bombe, in fuga dai proiettili dei mitra, attento a non finire nelle mani degli estremisti religiosi. Il tutto per pochi soldi, spesso da freelancer. Perchè, in fondo, la guerra qualcuno deve raccontarla e testimoniarla. Con l’unico obiettivo di abbattere il muro dell’omertoso silenzio, sfidando la propaganda bellica alla ricerca della verità. La verità però ha un costo alto, altissimo. E spesso si paga con la vita.
Inviati di guerra, eroi sottotraccia
Dalla guerra in Ucraina alla crisi in Medio Oriente, passando per i conflitti colpevolmente dimenticati dal mondo, come Siria e Yemen. Senza dimenticare l’Iraq, l’Afghanistan, il Vietnam. E centinaia di altre. Gli inviati di guerra, “chiamati alle armi” s’infilano la casacca “press”, indossano l’elmetto per proteggersi e “armati” di telecamera e computer, iniziano a raccontare. Con la speranza che i soldati non se ne accorgano. Altrimenti da corrispondenti diventano prigionieri di guerra e, nella peggiore delle ipotesi, li uccidono. Perchè a qualcuno spaventa che gli inviati di guerra possano testimoniare la morte di civili – tra cui donne, bambini ed anziani -, gli stupri, il bombardamento di ospedali, l’eventuale utilizzo di armi chimiche ed altri crimini di guerra. Motivo per cui, quando la censura non basta, i corrispondenti vengono messi nel mirino di droni o mitragliatrici. Obiettivo: farli tacere. In un modo o nell’altro.
I corrispondenti non solo devono fare i conti con i rischi appena citati, ma anche con l’avversità dell’opinione pubblica (Non tutta, ovviamente e per fortuna, ma una buona parte). Spesso bistrattati, i giornalisti vengono accusati di essere al soldo di qualcuno, semplicemente perchè non prendono le parti di una o dell’altra parte coinvolta, come la propaganda di guerra impone. “O sei con me o contro di me”, insomma. Specialmente nel mondo dominato dai social media e dagli hashtag, nei quali vige la regola della contrapposizione. Non è un caso che anche i social media siano diventati “territorio di guerra”. Gli annunci che prima si facevano per radio in rarissime occasioni, oggi si fanno con i reels ogni giorno. I bollettini di guerra sono sostituiti da qualche riga di post. E così via. Oltre a ciò, ci sono le fake news: le informazioni non verificate o create ad arte per tentare di mobilitare il consenso generale, “far accettare” la guerra alle persone. Mentre i corrispondenti sono lì per testimoniare quanto la guerra faccia schifo. Il contrario, insomma. Ecco perchè li ammazzano.
Migliaia di giornalisti uccisi in 20 anni
La situazione, stando ai numeri, è tragica. Secondo un bilancio presentato da Reporter Senza Frontiere a fine 2022 negli ultimi 20 anni circa 1.668 giornalisti hanno perso la vita in territorio guerra, mentre lavoravano come inviati. 80 in media all’anno, secondo il rapporto redatto di Rsf. Un cimitero. A questi tragici numeri, vanno aggiunti quelli del nuovo rapporto del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj): su 99 giornalisti uccisi nel 2023, oltre la metà sono morti nella Striscia di Gaza.
Numeri agghiaccianti, che fanno da cornice per un quadro drammatico. Quel che emerge è che l’Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che sottolinea il valore della libertà di parola, è costantemente violato. Ogni vita lasciata sul territorio di guerra, è un pezzo di democrazia e libertà che se ne va. Con il mondo che sprofonda sempre di più verso autoritarismi, guerre e terrore. E chi racconterà (e racconta tutt’ora) sarà sempre visto come un fastidio, un qualcuno da censurare o eliminare. Ma senza di loro, la verità rimarrebbe sepolta sotto un manto di silenzio, con l’ingiustizia che continuerà a prosperare.
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