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Francesco Carducci (FdI): “Transizione energetica, politica estera e sviluppo: cosa deve fare l’Europa”

29 maggio 2024 | 19:07
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Francesco Carducci (FdI): “Transizione energetica, politica estera e sviluppo: cosa deve fare l’Europa”

Intervista a Carducci, candidato al Parlamento Ue per Fratelli d’Italia nella circoscrizione centro: “Dobbiamo invertire la rotta e definire un New Deal europeo”

Bruxelles, 29 maggio 2024 – Politica estera, difesa comune, sviluppo, riforme. Di questo e molto altro ha parlato Francesco Carducci, intervistato da ilfaroonline.it. Carducci, candidato al Parlamento Europeo per Fratelli d’Italia nella circoscrizione centro (Lazio, Umbria, Marche e Toscana), ha fatto il punto sulle sfide future che attendono l’Unione Europea, sottolineando quelli che secondo lui sono gli interventi chiave da mettere in campo.

Francesco Carducci, cosa l’ha spinta a candidarsi?

L’Europa si trova ad un punto di svolta: o evolve e si riforma, rilanciando con un piano straordinario d’investimenti il suo sviluppo, oppure rischia il declino com’è stato in questi ultimi 10 anni. Abbiamo perso competitività rispetto agli altri 2 grandi attori, Stati Uniti e Cina. In più, alcuni amici impegnate nelle istituzioni e con cui ho condiviso un percorso politico, mi hanno proposto di farmi avanti ed io ho accettato con grande entusiasmo.

Partiamo dal tema agricoltori. Negli ultimi mesi ci sono state tante proteste, in Italia ed in tutto il mondo. Come si dovrebbe muovere l’Unione Europea?

A nostro avviso, l’Europa oggi si occupa di tematiche che dovrebbero essere di competenza dei singoli Stati membri. Noi crediamo che invece debba occuparsi delle grandi questioni. La politica estera e di difesa comune, ad esempio, ma anche di un grande piano di sviluppo strutturale. Ovvero materie in cui i singoli Paesi hanno più difficoltà. L’agricoltura, ma anche la pesca, sono invece materie dove i nostri produttori sono sempre stati costretti a fare i conti con misure ormai inconcepibili. Facciamo un esempio: un peschereccio può andare in mare solo 140 giorni su 365 giorni, dovendosi fare carico per tutti gli oneri. Bruxelles fino ad oggi ha difeso questa scelta facendone una questione “ambientale”. Sono politiche che ormai non stanno più in piedi.

Anche i balneari sono alle prese con varie difficoltà, dovute anche alla Direttiva Bolkestein. Cosa ne pensa?

Come per la pesca e l’agricoltura, noi crediamo che la legislazione sulle concessioni balneari debba essere riportata agli Stati nazionali. In Italia ci sono oltre 20mila concessioni balneari, motivo per cui non possono decidere paesi come Olanda, Norvegia, Germania. Ad esempio, l’Olanda ha delle spiagge bellissime ma non ha nemmeno una concessione, perché nel mare del nord è difficile farsi il bagno anche in estate. Quindi non riesco a capire per quale motivo questi Paesi, che non hanno il polso della situazione e non hanno un’economia, debbano decidere per l’Italia, in cui questa attività incuba 20 miliardi di Pil. E’ una delle grandi battaglie che dovremmo fare: riportare gli Stati più vicini alle tematiche di loro specifico interesse.

francesco carducci

Prima ha citato la politica di difesa comune. In questi 2 anni e mezzo di guerra in Ucraina, l’Unione Europea non ha avuto molta voce in capitolo, come anche a Gaza. In che modo l’Ue potrebbe avere un ruolo centrale?

Ad oggi, l’Unione Europea di fatto non ha competenze in materia di politica estera. L’Alto Rappresentante, che attualmente è Josip Borrell, è un commissario senza poteri per il semplice fatto che la materia è affidata ai singoli Stati. O l’Europa stabilisce che deve farsi di carico di questa responsabilità, o non se ne esce. Pensiamo all’Africa: tra gli anni ’60 e gli anni ’80, molti Paesi europei erano abbastanza presenti, compresa l’Italia. Ma oggi siamo stati praticamente espulsi: ci sono cinesi, turchi e russi. Questo è accaduto perché non c’è stata un’adeguata ed intelligente politica di cooperazione con questi Stati, causando gravi danni alle nostre economie.

Ma per fare politica estera, ci vogliono risorse e strategie: il presidente Meloni sta aprendo rapporti bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo come Tunisia ed Egitto. Non solo con l’obiettivo di fermare l’immigrazione, ma anche per stabilire rapporti di collaborazione economica, culturale, sanitaria e sulla formazione. Ecco: è questo che significa “cooperazione tra Stati”. Ed è quello che dovrebbe fare l’Europa, prima che non sia più in grado di aprirsi a nuovi mercati.

E’ favorevole ad un esercito di difesa europeo?

Si, perchè la politica estera va di pari passo con quella di difesa comune. Per esempio, dopo la guerra di civile in Libia, sul territorio si sono posizione forze americante, russe, e turche. L’Europa non c’è più. E non c’è perchè non c’è un esercito di difesa comune. Abbiamo un piccolo contingente italiano tra Israele ed il Libano, ma non è così che si fa politica estera. Piccole testimonianze di singoli Paesi non portano a nulla, e così non possiamo neanche avanzare proposte di pace. Se non siamo in grado di mettere in campo una forte deterrenza militare, viene fatta fuori dagli altri attori, alternative non ci stanno. O ci sei o passi la mano.

Le grandi crisi internazionali portano alle migrazioni di massa, un problema che interessa soprattutto i paesi che si affacciano sul Mediterraneo tra cui l’Italia. Come s’interviene?

Prima citavo i paesi della sponda sud del Mediterraneo, ma importanti sono anche quelli dell’Africa centrale ed occidentale. Negli anni ’70 venivano messe in campo progetti per accompagnare lo sviluppo di Paesi che erano appena diventati indipendenti dopo le varie colonizzazioni. Oggi dobbiamo riprendere queste cooperazioni con gli Stati, portando sviluppo affinchè le popolazioni non siano più costrette a scappare. 

Qualche mese fa, von der Leyen ha visitato Lampedusa con Meloni e ha detto “Decidiamo noi chi entra in Europa”. L’immigrazione è diventato per l’Europa una tematica di primaria importanza?

Il presidente Meloni non solo ha portato von der Leyen a Lampedusa, ma anche in Tunisia, condividendo con lei la metodologia sui rapporti con gli Stati. Questo è l’indirizzo che il premier sta dando, e noi crediamo sia quello su cui si dovrà cimentare l’Europa, incentrato su sviluppo ed accompagnamento.

Capitolo ambiente. La critica principale rivolta a Bruxelles è che ha avuto un approccio “ideologico”. Cosa significa invece avere un approccio “pragmatico”?

Non si può pensare di stabilire determinati interventi, con tanto di date precise, senza mettere in campo le risorse necessarie per affrontare la grande trasformazione. Gli Stati Uniti hanno messo 2mila miliardi in campo. Senza soldi, come pensiamo che questo processo possa avvenire? L’Europa, così come ha fatto per il Covid, deve stanziare risorse straordinarie per accompagnare imprese e cittadini verso la transizione energetica. Altrimenti sarà impossibile.

Quindi secondo lei è sbagliata la direttiva sulle Case Green del 2050, come anche l’obbligo di auto elettriche entro il 2035…

E’ sbagliato non immaginare di mettere in campo i soldi necessari per questa svolta. Sui tempi, anche lì è da valutare. Noi abbiamo stabilito come limite massimo il 2035, ma altri Paesi si sono presi più tempo, come Cina ed India. Sul fatto che vada fatto, non ci sono dubbi. Ma servono le risorse necessarie

Passiamo alle riforme. Ad oggi, per le decisioni importanti serve che il Consiglio voti all’unanimità. Che ne pensa?

A differenza degli anni passati, abbiamo un Governo con un’investitura popolare chiara, e di conseguenza un peso specifico maggiore. Ma a prescindere da ciò, dobbiamo modificare la regola dell’unanimità. E’ una delle prime riforme da fare. Attualmente, basta che un Paese voti in maniera contraria e salta tutto. Non è possibile che un Paese solo, l’Ungheria, sia in grado di bloccare l’Europa sul tema dell’invio delle armi in Ucraina. E’ la quarta volta che esercita il suo diritto di veto. Questa cosa andava bene quando l’Unione era formata da 6 Stati, ma oggi siamo 27 e non può essere la metodologia da adottare. E’ necessario che venga adottato il voto a maggioranza qualificata.

Il Parlamento Ue è l’unica istituzione europea eletta direttamente, eppure ha meno poteri di Consiglio e Commissione. Cosa c’è che non va?

Questa cosa, piano piano, deve cambiare. L’indirizzo lo dà il Consiglio, la Commissione è l’organo esecutivo ed il Parlamento ratifica. Ma, continuando sul tema delle riforme, a breve si porrà il problema dell’elezione diretta del presidente della Commissione. Un motivo in più per riservare al Parlamento anche la capacità d’iniziativa legislativa.

E’ a favore dell’elezione diretta del presidente della Commissione? 

Sono processi lenti. Prima del funzionamento degli organismi, che ovviamente andrà ben definito, bisogna stabilire quali compiti assegnare all’Europa. Io ritengo che la politica estera, di difesa e di sviluppo sono i 3 pilastri fondamentali da cui partire. Se non riusciamo a tenere testa alla competitività internazionale, rischiamo ahimè un lento declino. In questi 10 anni Cina e Stati Uniti sono cresciuti, mentre noi siamo rimasti fermi.

L’Europa si sta impoverendo. Anche la Germania sta vivendo un periodo di grandissima difficoltà. E’ questo il nostro grande problema europeo?

Secondo me, è il primo in assoluto. E’ stato affidato a Mario Draghi un documento sulla competitività che a breve sarà presentato, vedremo cosa ne uscirà fuori. Se non c’è la crescita va in crisi anche il welfare ed il sistema dei diritti, conquiste del mondo occidentale. Bisogna definire un New Deal europeo sugli investimenti produttivi, sulla transizione energetica, sulla difesa comune. Oltre a ciò, tra le altre cose, penso ad un piano sul nucleare pulito e di quarta generazione, che ci consenta di avere auto-sufficienza energetica: è una questione strategica su cui i 27 paesi devono interrogarsi. Oggi però si pensa alla dimensione della zucchina e della vongola o a regolamentare la pesca. Insomma, bisogna invertire la rotta.

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