STORIA AMERICANA

Guerra del Vietnam: l’incubo del presidente Lyndon Johnson

26 luglio 2024 | 07:00
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Guerra del Vietnam: l’incubo del presidente Lyndon Johnson
Il presidente Lyndon Johnson in Vietnam (Foto: Wikipedia, dominio pubblico)

Quasi 60 anni fa, anche Johnson si ritirò dalla corsa alla Casa Bianca. Sognava di essere l’erede di Roosevelt, ma ebbe la colpa di ascoltare pessimi collaboratori. E oggi il suo volto è legato alla carneficina in Vietnam

Washington, 25 luglio 2024 – E’ il 31 marzo 1968. La primavera è iniziata da pochi, pochissimi giorni. I fiori cominciano a sbocciare, nuovi amori sono pronti a nascere, i locali iniziano a riempirsi. O almeno, tutto ciò è ciò che accade negli Stati Uniti. Già, perchè dall’altra parte del mondo, precisamente nel Sud-Est dell’Asia, è in corso la guerra ormai dal 1955. 13 anni interminabili. Diventeranno 20, un quarto di secolo. Il Vietnam è invaso dalle truppe americane, impegnate nel loro primo conflitto dopo il termine della Seconda Guerra Mondiale. Le bombe cadono sulle giungle vietnamiti, i civili vengono ammazzati a sangue freddo, i bambini muoiono, e migliaia di soldati pure, o perdono gli arti. Le piazze si riempiono di pacifisti disgustati. E’ in corso un orrore che il mondo, dopo il 1945, credeva di essersi lasciato alle spalle. Un disastro che la storia ha identificato in un nome e cognome: il presidente Lyndon Johnson.

Lyndon Johnson

Il presidente Lyndon Johnson

Chi era Lyndon Johnson

Il ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca, seppur sia il primo nella storia moderna americana, non è tuttavia il primo in generale. Per trovare un suo “predecessore” tocca tornare indietro di quasi 60 anni. Al 31 marzo 1968, appunto. Fu quel giorno che Johnson, sfinito, anziano e con problemi di salute, scioccò l’America rinunciando alla candidatura: “Sono giunto alla conclusione che non ammetterò che la presidenza si lasci coinvolgere nelle divisioni di partito che si annunciano in questa annata politica… Di conseguenza non accetterò la candidatura del mio partito per un altro mandato come vostro Presidente“.

In quel momento, Johnson era già al secondo mandato presidenziale. Già, perchè mise piede nello Studio Ovale già nel 1963, chiamato a raccogliere il pesantissimo testimone di John Kennedy, assassinato durante il corteo. In quanto vice-presidente, toccò a Johnson diventare il Comandante in Capo. Non era pronto per quel compito, non lo sarebbe stato nessuno. Non in quel modo. Eppure Johnson, un Democratico, concluse il mandato in maniera efficace e decise di ricandidarsi: alle elezioni del 1964 prese oltre il 60% dei voti, ottenendo il più largo margine di voti nella storia americana, sconfiggendo il candidato Repubblicano Barry Goldwater.

Lyndon Johnson presta giuramento

Johnson, fino ad un certo punto della sua seconda presidenza, si dimostrò un presidente tutto d’un pezzo, in grado di mettere a terra progetti che, fino a quel momento, sembravano un miraggio: promosse un ampio piano di riforme sociali e di avanzamento dei diritti civili della popolazione nera, fin allora segregata. I programmi, nominati sommariamente Great Society, migliorarono le condizioni di vita di milioni di americani poveri. Si tradussero in una nuova legislazione federale – approvata grazie a una schiacciante maggioranza Democratica al Congresso, e alle doti di persuasione e pressione di Johnson – che si proponeva di azzerare l’ingiustizia razziale, ampliare la radiodiffusione pubblica, estendere Medicare e Medicaid, investimenti nell’istruzione, nelle arti, nello sviluppo urbano e rurale, nei servizi pubblici. In materia di immigrazione, egli promosse una più grande ondata migratoria da Paesi fuori dall’Europa. Insomma, cosa si può chiedere di più?

Spregiudicato, estremamente ambizioso (sognava di essere l’erede di Roosvelt) ed abilissimo diplomatico, chi ha lavorato con lui afferma come fosse uno stacanovista, in grado di lavorare anche 20 ore di fila se necessario. Non fu un grande oratore, tutt’altro. Kennedy era molto meglio. Eppure il linguaggio di Johnson riuscì a mobilitare anime e cuori grazie alla sincerità. Fece sognare le persone, soprattutto i poveri ed i giovani a caccia di futuro. Fu anche un convinto uomo di pace, ci costruì la sua campagna elettorale. Ma, appunto, “fu”. 

Poi, però, arrivò il problema Vietnam. E da lì, non se ne esce più. Era in corso la Guerra Fredda, il mondo diviso a blocchi d’influenza tra Stati Uniti ed Urss. Capitalismo contro comunismo. Ecco: Johnson fece i danni. Quelli veri, a cui non si rimedia. Ma, per dovere di cronaca e storia, dobbiamo dire che Kennedy mise gli occhi sul Vietnam prima di lui.

Guerra del Vietnam, un po’ di storia

La “guerra al comunismo” partì già con la Dottrina Trumam (ex presidente degli Stati Uniti), secondo cui l’America doveva farsi carico della lotta globale contro l’avanzata dell’ideologia comunista, impegnandosi attivamente in ogni Paese che ne fosse minacciato. E secondo la teoria dell’effetto domino, dopo che un Paese diventava comunista, era molto probabile lo sarebbero diventati anche i Paesi confinanti. Johnson fece i danni. Quelli veri, a cui non si rimedia. Ma, per dovere di cronaca e storia, dobbiamo dire che Kennedy mise gli occhi sul Vietnam prima di lui.

Il Vietnam del Nord (ovviamente sostenuto da Urss e Cina) era già rosso, ma non lo era il Vietnam del Sud, in cui governava Ngô-dinh-Diem, sul quale sono ancora aperti dibattiti storici. Non è ancora chiaro se fosse un corrotto, un abile politico o magari entrambe le cose. Quel che è certo è che, nel corso degli anni, assunse le sembianze di un despota, ma appoggiato economicamente e militarmente dagli Usa. Nel 1963, però, perse il sostegno degli americani e fu ucciso durante un colpo di Stato. Al suo posto arrivò Nguyen Van Thieu, anch’egli un semi-dittatore, ma pienamente sostenuto dagli americani a cui interessava solo il non propagarsi del comunismo.

Kennedy, che nel 1962 si fece un nome sventando la celebre crisi missilistica di Cuba mandò inizialmente un “piccolo” contingente di consiglieri militari, circa 700. Poi, però, aumentarono di migliaia in migliaia, fino a raggiungere quota 30mila. Obiettivo, all’epoca, era quello di preparare l’esercito sudvietnamita a difendersi dall’assalto dei vietcong, ovvero i guerriglieri di stampo comunista al servizio del Vietnam del Nord. Una guerra civile.

Il ruolo di Johnson

La situazione precipitò sotto la seconda presidenza di Lyndon Johnson. Nonostante egli fosse contrario alla guerra, come detto poc’anzi, dovette ben presto cambiare idea. Soffriva tremendamente, stava male al pensiero di mandare giovani americani a fare da carne da macello. Non era campagna elettorale, lo pensava davvero. Ma ormai non sapeva più come uscirne (anche perchè, come detto, la questione Vietnam partì prima di lui), si ritrovò in un tunnel dal quale non si vede nemmeno uno spiraglio di luce. Confuso come nessun’altro, commisse sbagli su sbagli. Drammatici, purtroppo. Si accorse ben presto dei suoi errori, ma ormai era troppo tardi.

Circondato da falchi e pessimi collaboratori, tra i quali il segretario alla Difesa Robert Strange McNamara, il presidente diede ordine d’intensificare la presenza militare americana in Vietnam nel 1964, tramite truppe di terra operative. Fu l’inizio dell’intervento statunitense nel Sud Est asiatico. Una guerra lontana, lontanissima. Che i più reputarono una pazzia, senza alcun fondamento. Ed in effetti era così.

Chi consigliò Johnson, il quale ebbe la grave colpa di farsi convincere, non conosceva nulla del Vietnam e forse nemmeno dell’Asia in generale. Non aveva i vietcong, piuttosto che perdere quella guerra, avrebbero preferito lasciarci tutta la pelle sul campo. Anche la Francia fu costretta a capitolare durante la guerra d’Indocina, terminata nel 1954.

Johnson ascoltò tutti, tranne coloro che avrebbe dovuto ascoltare. Come George Ball, l’unico membro del gabinetto di Kennedy e Johnson ad essere fortemente contrario all’escalation. Ball sconsigliò di schierare forze di combattimento statunitensi, poiché credeva che avrebbe portato gli Stati Uniti in una guerra impossibile da vincere costringendole ad affrontare un conflitto prolungato. Se Johnson lo avesse ascoltato, oggi la storia sarebbe diversa. Ma purtroppo, non lo fece.

Il bilancio finale della guerra del Vietnam parla di quasi 60mila americani morti, oltre 300mila feriti, oltre 1000 dispersi. Contando anche le truppe alleate, morirono oltre 1 milione di persone. Le forze nordvietnamite e vietcong lasciarono invece sul campo oltre 500mila corpi. Una tragedia difficile da spiegare a parole. Spiegazione non ne ha. 

Il ritiro

Nonostante le tante cose buone fatte nel corso dei suoi anni alla Casa Bianca, oggi Johnson è ricordato solo per essere stato l’autore dell’escalation in Vietnam,. Dalle stelle alle stalle. Dopo il suo discorso alla Nazione, in cui rinunciò alla candidatura, partirono i colloqui di pace, che però sarebbero stati messi nero su bianco solo nel 1973 con gli Accordi di Parigi, sotto la presidenza del repubblicano Richard Nixon. Ironia della sorte, Johnson morì pochissimi giorni prima della firma.

Gli Stati Uniti si ritirarono dal Vietnam, il quale si riunì in un unico Stato sotto un regime comunista. L’America perse, oltre che migliaia e migliaia di uomini, la prima guerra della sua storia. E per un po’, perse anche la faccia. E Johnson, anche per questo, perse la possibilità di ottenere un terzo mandato. (Foto: Wikipedia, dominio pubblico)

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