L’ex premier e banchiere centrale si è ripreso la scena, illustrando il suo report sulla produttività europea. Ma perchè pur non avendo nessun ruolo politico, gli è stato affidato un rapporto in cui si detta l’agenda europea? L’analisi
Roma, 11 settembre 2024 – La tanto famosa “agenda Draghi” si è finalmente mostrata, anche se con un paio d’anni di ritardo. L’ex premier e banchiere centrale è infatti tornato sulla grande scena pubblica, e lo ha fatto sul terreno a lui più congeniale, che conosce meglio: quello europeo. Il rapporto sulla competitività, affidatogli da Ursula Von Der Leyen 8 mesi fa e presentato dallo stesso Draghi negli scorsi giorni (leggi qui), è un vero e proprio programma politico.
Ha evidenziato la crisi di produttività che affligge il Vecchio Continente (basti pensare al fatto che la Volkswagen vuole chiudere alcune fabbriche in Germania per la prima volta dopo 87 anni), l’assenza una Difesa comune che ci rende soggetti ai voleri di altri, la mancata indipendenza energetica, la mancanza d’innovazione. Insomma, questa è politica pura, pur essendo “Supermario” fuori da qualsiasi schema di partito. Il suo, infatti, è un ruolo ben più importante, decisivo per le mosse future dell’Unione Europea. Già, perchè Draghi ha il potere d’influenzare, tanto per cominciare, i cosiddetti poteri forti.
Draghi e i poteri forti. Ma chi sono?
Ma cosa sono questi “poteri forti”? Non sono figure spettrali ed oscure, che si nascondono in chissà quali covi in attesa di pianificare azioni deleterie, come spesso vengono dipinti in maniera forzata. Sono semplicemente le lobby, ovvero i gruppi d’interesse che sono in grado di influenzare le istituzioni europee in modo da ottenerne nei vantaggi. Si tratta, per lo più, di potenti industrie che fanno girare l’economia di tutto il continente, motivo per cui l’Ue deve interfacciarsi per forza. Non c’è nulla di segreto, ci sono manuali universitari ed accademici dedicati esclusivamente alle lobby che, come ovvio, guardano esclusivamente ai propri interessi. Bene: Draghi ha il “potere” di limitare le loro mire, grazie alla credibilità che si è costruito nel tempo in momenti di crisi. E, allo stesso tempo, è in grado di dettare l’agenda anche ai poteri democraticamente eletti e tutti gli altri che ne conseguono (Commissione, Consiglio e quant’altro).
Faccio l’avvocato del diavolo: è giusto che una persona mai eletta da nessuno, per quanto autorevole e credibile, sia in grado di dettare, o quanto meno suggerire, l’agenda politica? Dipende. Se le attuale architetture europee non sono state in grado di rispondere a pieno a determinate sfide, in quanto rimaste ferme a vari decenni fa, allora forse è il caso di cambiare strategia ed affidarsi, anche, a persone che negli anni hanno dimostrato di poter fare la differenza.
Il ruolo di Draghi in Europa
Si è parlato tanto di Draghi negli scorsi mesi, dato che è stato – almeno a parole – “candidato” dappertutto. Prima segretario generale della Nato come erede di Stoltenberg (alla fine quel posto è stato assegnato a Mark Rutte, ex premier olandese sostenitore della linea dura nei confronti dell’Italia e dei paesi ad alto debito pubblico), poi come presidente del Consiglio europeo. Dulcis in fundo, presidente della Commissione. Poi, non se n’è fatto nulla. E se mai qualche contatto ci sia stato, evidentemente non è andato a buon fine.
Ma il ruolo di Draghi va ben oltre le formali nomine: è un uomo con un altissimo tasso d’influenza a Bruxelles, come già dimostrato durante la sua carriera. Un prestigio conferitogli durante il suo mandato da governatore della Banca Centrale Europea, quando con il celebre discorso del “Whatever it takes” salvò l’Euro nel 2012, quando scoppiò la crisi del debito sovrano. Una crisi che rischiò di mandare in bancarotta l’Italia, che faceva fatica a trovare i soldi per il mese dopo (altro che investimenti a lungo termine). Ma quel discorso di Draghi – che gode addirittura di una pagina Wikipedia dedicata – fu un segnale molto importante nei confronti dei mercati, facendo capire agli operatori finanziari che fino ad allora avevano speculato su un possibile crollo dell’euro che da quel momento in poi avrebbero dovuto scommettere contro la BCE e le sue enormi risorse.
Draghi e il caso italiano
Oltre alle parole e alla credibilità di chi le pronuncia (come testimoniano i mercati), contano anche le azioni. Sotto il mandato di Draghi, la BCE decise di acquistare i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, tra cui – ovviamente – l’Italia. Ciò, tuttavia, solo a delle condizioni, severe ma probabilmente inevitabili: l’Italia avrebbe dovuto tagliare il più possibile la spesa pubblica, per tornare a respirare. Il Governo presieduto da Mario Monti, nominato per attuare riforme impopolari, fece esattamente questo. Più di tutto, venne effettuato un maxi-taglio alle pensioni con la tanto vituperata riforma Fornero, la quale ha innalzato l’età pensionabile. Una riforma che ancora oggi scatena le ire di molti, a causa del problema degli esodati, ma sostanzialmente nessun Governo successivo l’ha mai davvero smantellata.
Insomma, la BCE sotto la gestione Draghi salvò non solo la moneta unica, ma anche l’economia e la stabilità finanziaria degli Stati dell’Europa mediterranea. Tra questi, c’è anche la Grecia.
La questione greca
E’ la vicenda che più di tutte fa discutere, alimenta polemiche, crea dibattiti. Forse anche più del caso italiano precedentemente analizzato. Secondo i più critici nei confronti dell’ex premier e banchiere centrale, Draghi sarebbe stato il responsabile della crisi greca. Ma fu davvero così?
Nel 2015, la Grecia si trovava sull’orlo del baratro economico. I giornali di tutto il mondo parlavano di “Grexit”, l’uscita della Grecia dalla zona euro, un evento che avrebbe avuto conseguenze devastanti non solo per il paese ellenico, ma anche per l’intera architettura economica europea. La crisi aveva raggiunto livelli critici, con il paese in preda a recessione, disoccupazione e instabilità politica.
La Bce, sempre nel mandato Draghi, si fece carico della situazione. Le azioni della BCE inclusero interventi massicci sul mercato obbligazionario, che contribuirono a stabilizzare la situazione economica greca. Questi interventi non solo hanno impedito la fuga dalla moneta unica, ma hanno anche fornito a Atene il respiro necessario per attuare riforme strutturali e recuperare terreno. Dopo anni di austerità e sacrifici, il duro lavoro e le politiche di Draghi iniziarono a dare i loro frutti. Nei primi trimestri del 2017, la Grecia registrò una crescita del PIL dello 0,6%, un risultato che molti considerarono un vero e proprio miracolo. Questo timido segnale di ripresa dimostrà che, nonostante le difficoltà, la Grecia stava lentamente tornando sulla strada della stabilità.
Il futuro dell’Europa
Tornando all’oggi, c’è un punto cruciale che emerge dal report di Draghi: l’economia. Il netto calo di produttività che si avverte in Europa da decenni ci ha allontanato dai colossi del mondo, soprattutto Stati Uniti e Cina. Lo stesso Draghi parla di “competitor”. Un termine che, se riferito a Pechino o comunque ad altri Paesi “non alleati dell’Italia” non stupirebbe, ma fa riflettere che si riferisca anche all’America, storico alleato italiano ed europeo. Un alleanza che a onor del vero è soprattutto militare (se non ci fosse la Nato, come ci difenderemmo non avendo un esercito comune? E’ un altro punto trattato da Draghi). Insomma, l’economia è competitiva, non collaborativa. Stati Uniti e Cina continuano a crescere, giorno dopo giorno, mentre l’Europa ha smesso di crescere e, spesso, arretra. E’ tempo di guardare avanti. Basta perdere tempo, già se n’è perso troppo.