
Rifiutare l’identikit del violento come l’altro e accettarlo come parte del sistema vuol dire fare un’ammissione collettiva di responsabilità
Ci insegnano, in quanto donne, a riconoscerli. Ci insegnano che la mela marcia può essere scovata, tra tutte. Che un uomo che ti farà violenza, di qualsiasi tipo, sia riconoscibile. Così, alla partner, alla moglie, alla madre, all’ex, alla sorella, viene chiesto: ma possibile non ti fossi accorta di nulla? Perché non sei andata via prima?
La questione non funziona. Per anni abbiamo accettato che fosse normale essere all’erta nella relazione con l’uomo, abbiamo accettato di essere educate e inculcate con una cultura delle protezione. Dobbiamo essere sveglie, solerti, pronte a cogliere il segnale di un uomo che invece non viene educato, che è libero di gestire la propria frustrazione perseguitando, uccidendo, violentando. Ed il problema, comunque, rimane il non essersi accorte di nulla.
Sì, è possibile non rendersi conto di chi si ha davanti. No, non capita sempre alle altre. No, l’uomo che ti darà una spinta, poi uno schiaffo, poi cos’altro, non gira con un cartello appeso al collo con su scritto “cane”. E non è neanche l’immigrato “che non ha nulla da perdere” come ultimamente ha dichiarato la premier Giorgia Meloni. Chi uccide e violenta non è l’altro, ma il prodotto sistemico di una società che va nella sinistra direzione della discrepanza di genere: l’uomo che si macchia di femminicidio è perfettamente inserito nel contesto, non è l’eccezione, ma la norma.
Questo assunto basta a smentire anche le inutili polemiche sull’esigenza del termine femminicidio: questo è necessario perché indica un fenomeno che è sistematico, ossia del sistema. Cito le parole, illuminanti e verissime, della coraggiosa sorella di Giulia Cecchettin, Elena: “L’assassino di mia sorella viene spesso definito mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece, la responsabilità c’è. I “Mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro”.
I bravi ragazzi
A valanga queste parole sono diventate un grido: “E’ stato il vostro bravo ragazzo”. Filippo Turetta è un ragazzo italiano, studente universitario, forse solo “un po’ insicuro”. Alessandro Impagnatiello, che ha ucciso la compagna incinta di sette mesi con lunga premeditazione e recentemente condannato all’ergastolo, è anche lui italiano, con un lavoro, una famiglia, una casa. Sono padri, fidanzati, mariti, sono irriconoscibili.
Elena Ceste, una donna di 37 anni, scomparve il 24 gennaio 2014 a Costigliole d’Asti, in Piemonte. Il suo corpo fu ritrovato solo nel luglio dello stesso anno, in un campo vicino alla sua abitazione.
Il caso attirò molta attenzione mediatica, in parte per il mistero che circondava la sua scomparsa e in parte per le circostanze della sua morte. Il marito di Elena, che inizialmente era stato considerato un testimone, divenne poi il principale sospettato. Fu arrestato e accusato di omicidio, e nel 2016 fu condannato a 30 anni di carcere.
Giulia Sarti è stata una giovane donna uccisa nel 2020 dal suo ex compagno, un caso che ha colpito profondamente l’opinione pubblica in Italia. Giulia, di 30 anni, era una persona vivace e amata dalla sua comunità.
Il suo omicidio è avvenuto a seguito di una relazione segnata da violenza e stalking. Nonostante avesse denunciato le minacce e le aggressioni subite, Giulia non ricevette la protezione adeguata.
Margherita Sgambati è stata una giovane donna di 29 anni uccisa nel 2019 a Roma dal suo ex compagno. La sua storia ha suscitato grande indignazione e ha messo in luce il dramma della violenza di genere.
Margherita aveva cercato di interrompere la relazione con il suo aggressore, ma lui non accettò la fine della loro storia. Dopo averla aggredita in diverse occasioni, la uccise in un momento di violenza.
Cambiare la narrazione, vedere il reale
Non esistono prerogative del carnefice perfetto. Non è per forza un mostro, non è per forza un immigrato, non si nasconde sotto il letto e viene fuori quando spegni la luce. E’ probabile che ti chiamerà amore, che ti chiederà scusa, che ti dirà che non accadrà un’altra volta. Chiedere alle vittime di violenza perché non si sono rese conto prima di quanto stesse accadendo, è violenza. Fa parte della stessa matrice patriarcale e contribuisce a distorcere ulteriormente il reale e formare credenze che non aiutano la consapevolezza di quanto si sta subendo.
Rifiutare l’identikit del violento come l’altro e accettarlo come parte del sistema vuol dire fare un’ammissione collettiva di responsabilità. Vuol dire e alzare la mano e dire: “colpevole”.
Riconoscere che gli aggressori non sono entità estranee alla nostra società ma spesso uomini che vivono accanto a noi, è fondamentale per cambiare la narrativa. Dobbiamo smettere di considerare il femminicidio come un fatto isolato e cominciare a vederlo come un riflesso di una cultura che, ancora oggi, tollera e giustifica la violenza di genere. Siamo tutti coinvolti, nessuno escluso.
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