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Jimmy Carter, il presidente che l’America non meritava

31 dicembre 2024 | 05:55
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Jimmy Carter, il presidente che l’America non meritava

Jimmy Carter visse l’inferno della crisi degli ostaggi in Iran, solo e abbandonato da un’America che voleva un cowboy. Oggi viene celebrato post mortem, ma è troppo tardi

Washington, 31 dicembre 2024 – Jimmy Carter non è stato un Presidente qualsiasi. Dire questo potrebbe sembrare retorico, uno di quei cliché che si sbandierano ogni volta che qualcuno – famoso o meno – lascia questa terra. Ma nel caso di Carter, non è così. Lui, scomparso pochi giorni fa all’età di 100 anni (leggi qui), non è mai stato il tipo da lasciarsi incasellare in frasi fatte o convenevoli di circostanza. Carter ha incarnato lo spirito più idealista e ostinato della politica. Ex agricoltore di arachidi, devoto cristiano, Carter credeva nella politica come forza per il bene. Insomma, un peccato mortale se vuoi comandare a lungo.

Il peccato originale di Carter

Nel 1976, un’America ferita dal Watergate e stanca della folle guerra del Vietnam scelse Carter per la sua autenticità, per la sua promessa di essere diverso. E diverso lo fu davvero. Tanto che, quando arrivò il momento di combattere la crisi degli ostaggi in Iran, l’America scoprì quanto fosse difficile amare un uomo che non giocava secondo le regole del “sii duro o vattene”.

La presa di ostaggi all’ambasciata americana di Teheran nel novembre 1979 fu l’inizio della fine per Carter. 52 americani intrappolati, 444 giorni di prigionia. L’America voleva una risposta forte, violenta, da cowboy, ma Carter scelse invece la strada del dialogo, delle sanzioni e della pazienza. Era convinto che la dignità degli Stati Uniti non si misurasse con il numero di bombe sganciate. Per mesi negoziò, scrisse lettere alle famiglie degli ostaggi e pianificò ogni mossa con una precisione quasi ossessiva. Ma l’America non era in vena di pazienza. Voleva un John Wayne alla Casa Bianca, non un idealista con le mani giunte in preghiera.

Il fallimento dell’operazione militare

Quando Carter cedette alla pressione di autorizzare una missione militare per liberare gli ostaggi, il risultato fu un disastro epocale. L’Operazione Eagle Claw, una missione segreta degna di un film d’azione di basso successo, si trasformò in una tragedia: un elicottero si schiantò contro un aereo da trasporto nel deserto iraniano, uccidendo otto soldati americani. La missione fallì prima ancora di cominciare.

Carter apparve in televisione per assumersi la responsabilità del fallimento, con un candore che oggi sembra quasi alieno nella politica americana. Non cercò scuse, non incolpò nessuno. Ma agli occhi dell’opinione pubblica, il danno era fatto: Carter era debole, un perdente.

Gli ostaggi furono finalmente liberati il 20 gennaio 1981, esattamente mentre Ronald Reagan prestava giuramento come nuovo presidente. L’Iran, in un colpo di teatro crudele, aveva trattenuto gli ostaggi fino alla fine dell’amministrazione Carter, un’umiliazione calcolata. Reagan, con il suo sorriso hollywoodiano, si prese tutto il merito, mentre Carter fu costretto ad osservare in silenzio.

Il merito fu di Carter, non di Reagan

La verità, naturalmente, è che furono i mesi di negoziazioni di Carter a rendere possibile la liberazione. Ma nella politica americana, il tempismo è tutto, e la gloria raramente spetta a chi la merita davvero.

Carter non era un fallimento, ma un uomo troppo buono per il potere che gli era stato conferito. Non era perfetto, certo: il suo mandato fu segnato dall’inflazione galoppante e da una crisi energetica che non riuscì a risolvere. Ma fu un presidente che mise i principi sopra la politica, e pagò il prezzo più alto per questo.

Dopo aver lasciato la Casa Bianca, Carter fece quello che molti ex presidenti evitano: lavorò. Costruì case per i poveri, monitorò elezioni nei Paesi più pericolosi del mondo, combatté malattie dimenticate. Non si dedicò alla raccolta di ricchezze o alla costruzione di un impero mediatico. Carter scelse di continuare a servire.

Osannato post-mortem. Ma è troppo tardi

Oggi tutti sembrano ricordare Jimmy Carter come un gigante morale. Persino il presidente eletto Donald Trump ha rilasciato una dichiarazione di forte stima, definendolo un uomo di grande integrità. E come lui – legittimo, essendo a tutti gli effetti un suo collega – molti altri. Ma intanto, la realtà: all’epoca, Carter fu abbandonato, lasciato solo a leccarsi le ferite.

L’America, frustrata dall’umiliazione della crisi degli ostaggi e dall’economia stagnante, lo scaricò senza pietà. Al posto dell’uomo che cercava soluzioni lente ma giuste, scelse Ronald Reagan, un ex attore dalla parlantina sicura e dalla visione da cowboy. Reagan cavalcò l’onda della percepita “debolezza” di Carter, promettendo forza e grandezza, ma raccogliendo i frutti di negoziazioni già avviate dal suo predecessore. Reagan vinse non solo la presidenza, ma anche il cuore di un Paese che preferiva risposte facili alle sfide complesse.

E così, Jimmy Carter uscì di scena, umiliato e deriso. Ma la storia è sempre più gentile con gli idealisti rispetto alla politica del momento. Reagan sarà ricordato per il suo carisma e la sua retorica, ma Carter viene oggi celebrato per ciò che conta davvero: la sua persone. Il problema è che l’America lo ha capito troppo tardi.

*Lorenzo Contigliozzi – corrispondente dagli Stati Uniti.

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