L'intervista

Don Giovanni e le “Vite in transito”: una missione che fa bene al cuore e alle persone

16 febbraio 2025 | 10:00
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Don Giovanni e le “Vite in transito”: una missione che fa bene al cuore e alle persone

Il sacerdote della Parrocchia Santa Maria degli angeli ci racconta storie di accoglienza, ascolto e integrazione

Fiumicino, 16 febbraio 2025 – Non un punto di arrivo, ma un punto di partenza: così si può descrivere la Parrocchia Santa Maria degli Angeli. Situata all’ingresso dell’aeroporto di Fiumicino, la parrocchia si trova in un punto strategico e rappresenta una porta per la città. Ma è anche il primo punto di riferimento del Giubileo, essendo la prima che i pellegrini incontrano nel loro cammino verso il Vaticano. Una sorta di frontiera, quindi. Ed è qui che si svolge la missione di Don Giovanni, sacerdote della Diocesi di Porto-Santa Rufina che ogni giorno apre le porte della parrocchia a chi ne ha bisogno, non solo con opere di carità, ma anche creando un circolo di scambio reciproco e generosità, dove anche chi è in difficoltà aiuta il prossimo, seguendo la filosofia del dare all’altro quello che si riceve.

La storia di Don Giovanni

“Io sono un sacerdote della Diocesi di Santa Rufina. Sono nato a Roma, la mia famiglia ha sempre vissuto e vive a La Storta sulla Cassia” – ci racconta Don Giovanni in un’intervista -. Dopo alcuni incarichi parrocchiali, il Vescovo mi ha mandato qui come parroco della parrocchia dell’aeroporto di Fiumicino. Si tratta di un unicum nel mondo, in quanto ha la sua struttura parrocchiale voluta nel 1959, mentre nel 1975 è stata realizzata una prima cappella al T3, che però attualmente si trova al T1 partenze. Quindi, qui abbiamo due luoghi di preghiera, il primo a disposizione dei viaggiatori in transito e il secondo molto più accessibile per tutti i lavoratori e gli abitanti del territorio, anche se qualche passeggero si allunga fini qui”.

La prima parrocchia del Giubileo

La Parrocchia Santa Maria degli Angeli può essere considerata la prima parrocchia del Giubileo, non solo perché è la prima che si incontra sulla strada verso il Vaticano perché in essa viene offerto un servizio di accoglienza per i pellegrini cattolici: “Mettiamo a disposizione degli spazi per la preghiera, – spiega Don Giovanni – per la celebrazione ecauristica e la possibilità di confessarsi. Solitamente il pellegrino come atterra si dirige subito verso Roma. Può sostare invece rientrando al suo pese d’origine, perché più facilmente si allunga per un’ulteriore celebrazione di ringraziamento per questo Anno Santo,  anno di grazia e di speranza, come ci dice Papa Francesco. Per questo è importante mettere a disposizione la nostra accoglienza, quella  di tutta la comunità dell’aeroporto, in modo particolare della chiesa cattolica che è configurata in questa struttura parrocchiale della Diocesi di Santa Rufina”.

Progetto “Vite in transito”

La parrocchia è anche però il cuore di un’iniziativa molto importante: il progetto “Vite in transito”, un’opera di carità avviata nel 2016 e rivolta, in particolare, ai migranti e i senza fissa dimora che transitano presso l’aeroporto “Leonardo da Vinci” o in aerostazione e che si trovano in uno stato di povertà assoluta.

Il progetto, sostenuto da Caritas Italiana, tramite il contributo dell’8×1000, dalla Caritas diocesana di Porto-S. Rufina e dalla Parrocchia Santa Maria degli Angeli dell’Aeroporto di Roma Fiumicino, si avvale della collaborazione degli Enti di Stato, delle Forze di Polizia, del Pronto Soccorso ADR, di ADR Security e di numerose ambasciate che, insieme ai propri Governi, hanno garantito un supporto concreto a chi si trova in difficoltà.

“Quando parliamo di migranti e di senza dimora parliamo di persone di tutto il mondo – sottolinea Don Giovanni -. Non si parla soltanto di Africa: c’è tutta un’immigrazione internazionale che si muove, il discorso è molto più ampio. Nell’immaginario comune ci si focalizza solo lì. Invece no, perché c’è tanta gente di tanti paesi diversi che ha il diritto di spostarsi, di viaggiare, come abbiamo constatato. Anche persone che hanno un disagio psichiatrico importante viaggiano. Certo, uno potrebbe dire come fai a gestirti? Infatti sono molti casi come questo in cui interveniamo. Parlo di noi perché siamo più realtà ad intervenire: l’ambasciata di competenza, le Forze dell’ordine, il personale sanitario, la parrocchia, la Caritas, più persone che aiutiamo questi poveri figli a rientrare in casa”.

Ma come si struttura il progetto? “Noi cerchiamo, una volta che ci è stata segnalata la persona in difficoltà, – spiega Don Giovanni – di capire quale progettualità mettere in atto e si intende, in prima esperienza, quella di aiutarlo a rientrare a casa volontariamente. Lui  chiede aiuto all’ambasciata, io vengo contattato da loro o dalle Forze dell’ordine e ci attiviamo per aiutarlo a rientrare. Questa accoglienza può essere anche di un giorno o due giorni, dipende a seconda dell’orario del volo e del giorno in cui la persona deve volare. Però cerchiamo di essere molto rapidi. E questa è una condizione importante per far sì che le persone non si perdano ancora.

Ci può essere il rimanere nella casa che abbiamo in parrocchia, dove ci sono solo 7 posti letto, per una notte o per un mese, come è successo ad un colombiano che si perdeva spesso, ma dopo un mese  è rientrato nel suo paese e nel suo contesto familiare. Oppure ci sono delle possibilità in cui si parla di un’integrazione sul territorio italiano: aiutiamo le persone a trovare lavoro, a sistemare i documenti, ricostruire una nuova vita, una nuova speranza, soprattutto le persone brave e volenterose, giovani e adulti che vogliono veramente collaborare e mettersi a disposizione dello Stato e del prossimo, predisposti alla legalità alla sicurezza, all’ordine. Qui trovano sicuramente uno spazio. Ed un grande opportunità per essere aiutati.

Non un punto d’arrivo, ma anche di riprogettazione: così Don Giovanni parla della sua parrocchia e di “Un buon progetto ispirato da Dio. Lo dico perché sono convintissimo. L’azione  di Dio qui c’è stata tutta. Perché è stato attivato dopo il Giubileo straordinario della Misericordia, con opere di misericordia volte ad aiutare e sostenere, C’è proprio il timbro di Dio. Con la nostra capacità di saper aiutare le persone, essere sensibili , essere attenti,  essere umani, viene data l’opportunità di continuare a vivere con un progetto di vita concreto, reale e ordinato in cui più persone offrono il loro contributo che può essere intellettuale, economico o sociale.

Questo è molto bello – aggiunge Don Giovanni – perché in questo mio servizio non c’è l’assistenzialismo, ma c’è accoglienza, ascolto, integrazione e promozione della persona umana. E sono tante le persone che noi abbiamo aiutato ed uso il noi perché non sono solo, ci sono più enti, più autorità, più possibilità. Mi piace proprio usare il noi per far capire il senso di unità nel portare avanti questa missione. Sarebbe troppo riduttivo dire “io faccio”, lo trovo molto limitante. La realtà è che, pur essendo solo in parrocchia, non sono solo”.

“Un senso comune di missione”

Quando Don Giovanni parla di aiuto reciproco, intende una vera e propria collaborazione: “Un senso comune di missione” dove protagonisti sono anche ragazzi che a loro volta hanno ricevuto assistenza- “Chiedo sempre di collaborare – dice Don Giovanni – è una mia predisposizione caratteriale, perché mi piace inizialmente dare molta accoglienza, molta fiducia e molta disponibilità, soprattutto quando mi sembra di capire che le persone siano intelligenti. Mi piace valorizzare. Certo, le cose possono migliorare o peggiorare, ma credo sia mortificante ghettizzare subito le persone.  Qui, ad esempio, ci sono ragazzi molto generosi, che sono grati a Dio per l’aiuto che ricevono e per questo aiutano altri poveri. Anche le persone che si trovano in difficoltà aiutano e questo lo apprezzo molto”.

C’è più gioia nel dare che nel ricevere – aggiunge -. Io mi sento in imbarazzato quando ricevo, sono più soddisfatto quando riesco a dare. Ecco perché la fiducia, ecco perché la sfida. Bisogna far sentire la persona accolta anche se la si sta aiutando. Dover chiedere aiuto, condividere una stanza anche se dignitosa, per un soggetto che soffre potrebbe essere un’umiliazione. Ma il più delle volte, alla fine viene fuori che se vedo che sei capace a fare qualcosa, mi faccio aiutare. Molti di loro sono molto capaci. Il fatto che vengono via dai loro paesi non è sinonimo di inferiorità, ma di bisogno di costruire la propria vita, di avere un progetto, di avere un futuro, puntando alla propria realizzazione, tenendo conto dei criteri, delle esperienze formative professionali.

Ci sono ragazzi che hanno vissuto la povertà o che vengono da un passato di alcolismo e droga. Stiamo aiutando ad esempio degli uomini in questa condizione, ma sono già in fase di integrazione per riprendere in mano la propria vita. Tutto il mondo è così. Ognuno ha una propria storia, una semplicità che molto spesso non corrisponde alla nostra, ciò non vuol dire che va penalizzata. Conoscere atteggiamenti, storie  e percorsi diversi ci arricchisce. Anche quando non c’è uno scambio c’è comunque un rispetto, una conoscenza, una storia che come la tua si racconta con parole, con atteggiamenti e  con abitudini diverse. Sono sempre degne di essere accolte, – conclude Don Giovanni – rispettate perché fatte di un’esperienza, una diversità che fa sì che si possa camminare tranquillamente insieme per un breve tratto, per un anno, per tutta la vita. Questo mi affascina molto: vedere, constatare condividere. E’ veramente una ricchezza intellettuale, spirituale, umana, fa bene al cuore, fa bene alle persone, fa bene al mondo”.