Il grande azzardo di Trump: far crollare Wall Street per piegare la Fed?

Colpo di scena a Washington, Trump congela i dazi “reciproci” per 3 mesi. E se tutto servisse solo a forzare la mano alla Fed e rifinanziare il maxi-debito americano a costo più basso?
10 aprile 2025 – Colpo di scena a Washington: il presidente Donald Trump ha annunciato la sospensione per 90 giorni dei dazi “reciproci” che appena una settimana fa la sua amministrazione aveva imposto su centinaia di miliardi di importazioni. I dazi rimangono in vigore “solo” nei confronti della Cina per una cifra pari al 125%. Questa mossa improvvisa viene letta da molti osservatori come un’ulteriore conferma di una strategia studiata a tavolino: provocare un crollo temporaneo dei mercati finanziari per forzare la mano alla Federal Reserve sul fronte dei tassi di interesse. Allo stesso tempo, la “pausa” potrebbe rivelarsi una tattica per guadagnare tempo prezioso – monitorando gli effetti economici e magari negoziando nuove condizioni con i partner commerciali – senza però rinunciare del tutto alla leva dei dazi. Insomma, Trump toglie (per ora) il piede dal pedale del gas, ma solo dopo aver ottenuto la sbandata voluta? Vediamo i fatti.
Tariffe punitive e crollo pilotato?
Il 2 aprile, Trump aveva annunciato dazi generalizzati su tutte le merci importate da 180 Paesi, con misure particolarmente dure rivolte contro la Cina e l’Europa. Ufficialmente, la Casa Bianca presentava queste tariffe come una “dichiarazione d’indipendenza economica” degli Stati Uniti, necessaria per difendere i lavoratori americani e combattere anni di squilibri commerciali. Nei fatti, l’effetto immediato è stato un panico sui mercati globali: Wall Street ha vissuto le sue peggiori sedute dal 2020, bruciando in pochi giorni oltre 2 mila miliardi di dollari di capitalizzazione. Mentre i listini azionari affondavano, i capitali si spostavano in massa verso asset rifugio come i titoli di Stato USA, facendo impennare momentaneamente i rendimenti decennali fino al 4,8% per poi farli precipitare sotto il 4,3% nel giro di poche settimane. Un’altalena anomala, che ha subito alimentato i sospetti: possibile che fosse tutto calcolato?
Ad alimentare queste illazioni ci si è messo lo stesso Trump, apparentemente per sbaglio. Poco dopo l’annuncio dei dazi, il presidente ha diffuso un video virale (caricato su TikTok) in cui si alludeva a una sua “mossa segreta”: usare i dazi per spostare la liquidità dagli investimenti azionari verso i Treasury americani, forzando così la Federal Reserve a tagliare i tassi d’interesse. Secondo questa narrazione – subito bollata come teoria cospirazionista dai detrattori – il piano avrebbe innescato una serie di effetti positivi nell’interesse dell’Amministrazione: tassi dei mutui più bassi, dollaro indebolito (quindi esportazioni USA avvantaggiate) e soprattutto rifinanziamento del debito federale a costi molto più bassi. In altre parole, l’obiettivo nascosto dei dazi sarebbe stato quello di mettere sotto pressione la banca centrale, sfruttando il caos sui mercati come leva per ottenere un allentamento monetario.
Federal Reserve, l’obiettivo di Trump
Che la Federal Reserve fosse il vero bersaglio (indiretto) della manovra dei dazi lo suggeriscono diversi indizi. Innanzitutto, la reazione senza precedenti della banca centrale americana: di fronte al tracollo di Wall Street, Jerome Powell ha convocato una riunione straordinaria a porte chiuse nel giro di 48 ore. Fonti vicine alla Fed, riportate dai media, parlavano apertamente della possibilità di un taglio aggressivo dei tassi d’interesse per arginare i danni del crollo borsistico. In pratica, il piano ipotizzato nel video di Trump – costringere la Fed a intervenire – sembrava materializzarsi: la banca centrale, che solo qualche settimana prima prevedeva forse due o tre riduzioni dei tassi nel corso dell’anno, si trovava ora costretta a valutare ribassi ben più consistenti e anticipati.
Del resto non solo la Fed ha iniziato a battere in ritirata di fronte allo spettro di una recessione indotta dai dazi: perfino in Europa c’è chi, come il governatore francese Villeroy de Galhau, ha dichiarato che i cambiamenti macroeconomici dopo i dazi USA del 2 aprile “giustificano un nuovo taglio dei tassi a breve”. Il messaggio è chiaro: la brusca frenata dei mercati ha allarmato le banche centrali di mezzo mondo. Missione compiuta dunque, dal punto di vista di chi ipotizza un piano Trump per piegare la politica monetaria alle proprie necessità.
La coincidenza temporale è difficile da ignorare. In meno di una settimana dal varo delle tariffe, i mercati hanno vacillato quel tanto che basta a mettere la Federal Reserve con le spalle al muro. Proprio sul più bello, ecco che Trump allenta la stretta: il 9 aprile annuncia la sospensione dei dazi per tre mesi, facendo volare Wall Street (+7,9% il Dow Jones, +12% il Nasdaq in chiusura). Per i sostenitori della teoria del “crollo pilotato”, è la prova definitiva: se l’intenzione fosse stata davvero quella di negoziare duramente sugli scambi commerciali, perché congelare le tariffe dopo appena sette giorni e senza ottenere concessioni concrete? Molto più logico supporre che l’obiettivo principale – il segnale alla Fed – fosse già stato raggiunto, e che a questo punto mantenere i dazi sarebbe stato un rischio inutile (rischio di aggravare troppo la situazione o di rompere qualcosa nel sistema finanziario). A supporto di questa lettura, si fa notare che persino i titoli di Stato americani stavano iniziando a scricchiolare sotto il peso della tempesta: il rendimento dei Treasury a 10 anni, dopo un iniziale calo, era tornato a salire bruscamente, segno di vendite massicce (forse la Cina che iniziava a “svuotare il caricatore”?). In altri termini, Trump potrebbe aver deciso di fare marcia indietro non appena il gioco si è fatto troppo pericoloso per il suo vero obiettivo, ovvero tenere basso il costo del debito pubblico.
Il debito federale
È proprio il debito federale il convitato di pietra di questa vicenda. Gli Stati Uniti si trovano a fare i conti con un livello di debito record – oltre 36 mila miliardi di dollari, pari a circa il 120% del PIL – accumulato anche a causa di maxi-deficit e generosi tagli fiscali. Il problema più pressante non è il rischio di insolvenza (impensabile per Washington), ma il costo crescente degli interessi: nell’ultimo anno fiscale gli USA hanno pagato ben 882 miliardi di dollari in interessi sul debito, più del doppio rispetto a quattro anni prima. Questa cifra monstre ha assorbito circa il 13% dell’intero bilancio federale, più di quanto si spenda per la difesa. E la tendenza è in peggioramento, perché nell’anno in corso circa 3 mila miliardi di titoli di Stato arrivano a scadenza e dovranno essere rifinanziati. In parole semplici, l’America deve continuamente emettere nuovo debito solo per rimborsare quello vecchio, entrando in un circolo vizioso: più i tassi salgono, più la montagna di interessi da pagare cresce, rosicchiando risorse che potrebbero essere destinate ad altro.
Trump conosce bene questi numeri e sa anche che le vie ortodosse per affrontare il problema (tagliare la spesa pubblica o aumentare le tasse) sono politicamente esplosive. Dopo essere tornato alla Casa Bianca con promesse di prosperità e di “non toccare Social Security e Medicare”, il tycoon non ha alcun incentivo a imboccare la strada di un’austerità lacrime e sangue. Dunque, ecco l’idea non convenzionale: sfruttare la politica commerciale e la retorica muscolare per ottenere indirettamente ciò che una richiesta esplicita alla Fed non avrebbe ottenuto. I dazi – pur presentati come arma di protezione industriale – diventano così un mezzo per spaventare i mercati e indirizzare le aspettative: l’economia rallenta, l’inflazione attesa cala, la banca centrale è costretta a rivedere al ribasso i tassi. Il bello (dal punto di vista di Trump) è che nel frattempo le stesse tariffe generano entrate straordinarie nelle casse statali, almeno finché restano in vigore, e incentivano un volano particolare: l’aumento dell’incertezza spinge molti investitori internazionali a parcheggiare i capitali in beni rifugio, primi fra tutti i Treasury USA. In sostanza, più il mondo teme la guerra commerciale, più compra obbligazioni americane per mettersi al sicuro – il che significa per Washington poter collocare debito a rendimenti più bassi. Un paradosso? Forse. Ma nell’azzardata scommessa trumpiana c’è una logica interna: creare un problema per poi vendere la soluzione.
Dazi congelati: ritirata o strategia?
Alla luce di questo scenario, la sospensione trimestrale dei dazi annunciata da Trump assume un significato particolare. Lungi dal rappresentare un semplice dietrofront per paura delle conseguenze, potrebbe essere parte integrante della tattica. Con i mercati ormai scossi a sufficienza e la Fed già sul chi vive, Trump può permettersi di allentare la pressione nell’immediato – un modo per rassicurare momentaneamente investitori e imprese, evitare che il panico sfugga di mano e, non ultimo, mostrare un volto ragionevole agli occhi dell’opinione pubblica. Le Borse, infatti, hanno reagito con un potente rimbalzo all’annuncio della tregua, recuperando in parte le perdite. Missione compiuta, almeno per ora: il presidente passa da incendiario a pompiere nel giro di qualche seduta, potendo rivendicare di aver “salvato” il mercato dopo averlo lui stesso messo in pericolo.
Resta il fatto che, ad oggi, Trump sembra aver giocato la sua mano con tempismo chirurgico. Ha premuto il grilletto dei dazi quando serviva creare uno shock, e l’ha rilasciato (per ora) prima che la situazione degenerasse. La Federal Reserve – indipendente sulla carta – è stata de facto trascinata sul terreno desiderato: difficilmente potrà ignorare il messaggio proveniente dai mercati e dalla Casa Bianca. Gli occhi sono ora puntati sulle prossime mosse di Jerome Powell e sulle decisioni di politica monetaria di maggio. Cederà la Fed alle pressioni tagliando i tassi? Se sì, Trump potrà cantare vittoria, sostenendo che la sua linea dura ha prodotto un’America più forte (debito rifinanziato a costi minori, dollaro competitivo, industria protetta). Se invece la banca centrale resisterà, o se l’economia mostrerà segni di crisi effettiva, il presidente dovrà decidere se riaprire il fronte dei dazi e rilanciare la scommessa, rischiando però di consumare la fiducia rimasta.
*Lorenzo Contigliozzi – corrispondente dagli Stati Uniti.
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