Il fatto

Una storia di contrabbando, burocrazia e Giustizia

19 aprile 2025 | 15:33
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Una storia di contrabbando, burocrazia e Giustizia

L’avorio importato illegalmente resta in Dogana: dopo 22 anni, avrebbe diritto alla restituzione, ma non è così

Fiumicino, 19 aprile 2025 – C’è un’Italia in cui anche una sentenza definitiva non basta. Un’Italia dove, per ottenere ciò che un giudice ti ha già riconosciuto, devi affrontare un labirinto di formalità, competenze sovrapposte e rimpalli procedurali. Ed è in questa Italia che si è incagliato – questa volta per fortuna, verrebbe da dire – un trafficante di avorio, che oggi, pur avendo vinto su carta, non riesce a tornare in possesso dei beni confiscati ventidue anni fa all’aeroporto di Fiumicino.

Il Tar del Lazio ha respinto il suo ricorso, non perché infondato, ma perché – a detta dei giudici – la sentenza civile del 2019 è stata già eseguita. Il dissequestro è avvenuto nel 2021, i beni sono passati dalla custodia del Nucleo CITES dei Carabinieri all’Ufficio delle Dogane di Fiumicino, ma da lì non si sono più mossi. La motivazione? Mancano le formalità doganali e amministrative previste dalla normativa europea. Senza quelle, niente restituzione.

Per una volta, la burocrazia ha fatto da diga al crimine. I 118 manufatti in avorio, importati illegalmente dal Nepal nel 2003 e finiti al centro di un interminabile contenzioso, restano chiusi nei magazzini della Dogana, inaccessibili perfino al proprietario a cui un giudice ha riconosciuto il diritto alla restituzione.

E non si tratta di un caso qualsiasi: l’importatore, a suo tempo rinviato a giudizio per contrabbando e falsità ideologica, si è salvato grazie alla prescrizione, ma non ha mai dimostrato la legittimità della provenienza dei beni. Ha solo sfruttato il tempo e le falle del sistema. Il paradosso è che, nel 2019, la confisca amministrativa è stata annullata per un vizio formale – la sanzione era prescritta – e il Tribunale ha stabilito che, una volta decaduto il potere dello Stato di trattenere i beni, il diritto di proprietà “rinasceva automaticamente”.
Ma il Tar oggi prende atto che la restituzione effettiva è bloccata da una nuova barriera: le norme doganali, non affrontate nella sentenza civile, e quindi non “copribili” dal giudice amministrativo, che non può completare né correggere decisioni altrui.

In sostanza, il diritto c’è, ma non si può applicare, e il Tar si ferma. Per una volta, è un bene. Perché si tratta di avorio – un materiale simbolo di distruzione ambientale, sfruttamento e commercio illegale – e perché il suo ritorno nelle mani di chi lo ha importato irregolarmente sarebbe un segnale devastante. Ma cosa accade quando a trovarsi in questa stessa trappola non è un trafficante, ma un cittadino qualsiasi?

In troppi casi, la stessa burocrazia che ha rallentato la giustizia contro un reato, diventa una gabbia per chi cerca di far valere un diritto legittimo. Succede a chi attende un risarcimento, un permesso, un rimborso. A chi vince una causa, ma non riesce a vederla eseguita. Perché la controparte è un ufficio che non era formalmente parte del giudizio, o perché manca un documento, un’autorizzazione, un codice da inserire nel sistema.

Questa volta la lentezza ha avuto un effetto etico: ha impedito che l’avorio sequestrato tornasse nelle mani sbagliate. Ma non bisogna farsi ingannare. Nella maggior parte dei casi, la burocrazia colpisce i più deboli, non i furbi. E finché non si affronterà seriamente il nodo dell’effettività delle sentenze – della possibilità concreta che un cittadino possa farle valere – la giustizia resterà, troppo spesso, una promessa scritta ma non mantenuta.