Si tratta di un piano di assistenza che in tempi recenti è diventato famoso in quanto associato ad uno dei disastri finanziari maggiori del nuovo millennio
Il REPO altro non sarebbe che un piano di assistenza ai piccoli/medi enti finanziari lanciato dalla FED, la Banca Centrale degli Stati Uniti, per aiutarli a superare le difficoltà delle scadenze fiscali. Si tratta di un piano di assistenza che in tempi recenti è diventato famoso in quanto associato ad uno dei disastri finanziari maggiori del nuovo millennio: la crisi dei subprime del 2008.
Il fatto che la FED abbia rinnovato il proprio piano REPO non è una notizia da far scivolare sottobanco: le statistiche per quel che riguarda l’economia americana sono a dir poco nere: il rischio recessione per l’anno 2020 è aumentato oltre il 30% ed è anche per questo che la FED ha deciso di correre ai ripari.
Si tratta di una vera e propria inondazione di liquidità del mercato interno. Il piano della FED mira esplicitamente a mantenere stabile il dollaro a fronte delle forti oscillazioni delle monete che ha colpito l’Occidente in questo Autunno.
Che l’euro e la sterlina inglese non se la passino bene non è un segreto: la Brexit e l’instabilità economica della Germania degli ultimi mesi stanno trascinando con sé anche la moneta unica dell’Unione, caratterizzata da un pessimo comportamento su tutti i fronti.
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L’iniezione di liquidità della FED si quantifica in investimenti di oltre 60 miliardi in Titoli di Stato a breve scadenza, investimenti che nel 2020 dovrebbero raggiungere la cifra di 100 miliardi. Inoltre, il piano di assistenza alle piccole e medie banche è stato portato da 60 miliardi a 75 miliardi con effetto immediato e i tassi sono stati tagliati di ben 25 punti, portandosi dall’1,75% al 1,5%.
Questo ha permesso al dollaro di mantenere un comportamento relativamente positivo sui mercati valutari, ma non sono pochi gli investitori che restano scettici, chiedendosi quanto questo possa durare.
Uno dei principali fattori sottostanti all’aumento del rischio di recessione economica è la lunga serie di guerre ai dazi che il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di intraprendere nel corso del 2019.
Dopo lo scontro con Pechino, infatti, si è avuto qualche dissidio con l’India, fatta fuoriuscire dalla lista dei partner commerciali avvantaggiati e anch’essa tassata. Infine è toccato all’Europa, le cui merci sono state oggetto di una tassazione di oltre 7,5 miliardi di euro.
Le nazioni più colpite sono state Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna.
Buone notizie per l’Italia, per la quale, almeno per il momento, non sono previste ripercussioni economiche. A garantire il libero accesso ai prodotti alimentari italiani sarebbe stato il pronto intervento del Presidente della Repubblica Mattarella e de Presidente del Consiglio Conte, immediatamente recatisi a Washington per parlare con Trump.
La collaborazione tra i due paesi, infatti, è troppo solida per essere incrinata in questo modo, con l’Italia che è il secondo paese della NATO per quel che riguarda contributi e spese militari dopo proprio gli Stati Uniti.
La crisi che sta attraversando il dollaro è direttamente riconducibile alla crisi del commercio globale scatenata dalla guerra ai dazi proprio in quanto le valute debbono gran parte della loro forza proprio dall’impiego per le macro-transazioni economiche, ovvero la libera circolazione di materie prime e di merci.
Se da un lato una politica protezionista va a migliorare momentaneamente la situazione del mercato interno, infatti, a lungo termine porta ad una incisione sul valore della moneta, sulla sua circolazione e sulla disponibilità di liquidità che risulta essere fatale per l’economia di un paese nel terzo millennio.